Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 21 Venerdì calendario

QUALCHE SCOMODA DOMANDA

Berlusconi, invitando il governo — con una di quelle sue sortite che paiono più una forma di marketing elettorale che una proposta politica praticabile — a sforare il tetto del tre per cento di deficit annuo nel bilancio pubblico, ha fatto un’affermazione a doppio taglio sulla quale, se fossimo un Paese serio, classe politica, media e opinione pubblica discuterebbero senza ipocrisie europeiste e reticenze nazionali.
Il primo interrogativo è se potremmo permetterci una posizione tanto forte in tema di sovranità nazionale e di rigetto degli impegni europei. Con la rottura dell’austerità finanziaria — un tabù che è la cifra della rinuncia a essere sovrani e, allo stesso tempo, del modo parecchio passivo di stare in Europa — non correremmo il pericolo di essere espulsi dall’Unione Europea. Non conviene a nessuno espellerci, mentre tenerci dentro conviene a Germania, Francia e a qualche Paese del Nord, realisticamente machiavelliani al posto nostro. Ma sarebbe lo stesso uno choc internazionale e nazionale.
La seconda domanda che dovremmo porci è se aver rinunciato a esercitare la sovranità nazionale — il bilancio, con la politica estera, è uno degli ambiti in cui essa si concreta — non sia il «vincolo esterno» che ci siamo imposti per far fronte sia all’inclinazione della pubblica amministrazione a spendere e spandere, e per fornire allo Stato un alibi a imporre sempre altre tasse. Dovremmo chiederci se il sistema politico e quello socioeconomico, corporativo e tecnocratico, ci consentirebbero di essere altrettanto virtuosi senza impegni esterni e di evitare di aumentare il già cospicuo debito pubblico (130 per cento del Pil), ricorrendo alla pezza di ulteriori tasse per non finire in bancarotta.
Sono domande che riguardano la capacità di direzione della classe politica, il senso di responsabilità della pubblica amministrazione e gli interessi corporativi e tecnocratici del sistema socioeconomico. Ma, invece di porcele e di rispondervi, ci stiamo chiedendo che ne penserà la signora Merkel e ci preoccupiamo di «rassicurare l’Europa» alla cui burocrazia torna comodo impartirci lezioni. A prescindere dal ruolo europeo e dalla precaria situazione debitoria, non ci stiamo facendo una bella figura.
Le parole estreme di Berlusconi non mettono in discussione la nostra partecipazione all’Unione Europea — andare a rassicurare la quale è privo di altro senso che non sia l’ulteriore manifestazione di una sudditanza psicologica, prima che politica, francamente ridicola — bensì la capacità di governare di chiunque governi. Il Cavaliere deve rispondere «politicamente» agli elettori e Letta deve «rassicurare tutti gli italiani» che saprà tenere i conti in ordine e, magari, ridurli, non i tecnocrati di Bruxelles che ci trattano come scolaretti.
Sostenere, come si sta facendo, che non si trovano otto miliardi per evitare l’aumento dell’Iva su un bilancio di quasi mille miliardi è, culturalmente, finanziariamente, politicamente, eticamente, indecente. Si ripetono gli errori del governo Monti: tante chiacchiere e molte tasse. Berlusconi, per parte sua, avrebbe ragione — là dove dice che otto miliardi li si trova facilmente nel bilancio di ogni azienda — se non avesse fatto ben poco, quand’era al governo, per ridurre spesa e fiscalità come aveva promesso. Con la sua sortita, però, egli ha aperto un capitolo sia europeo, sia interno. Ma, per ora, «niente di nuovo sul fronte occidentale». E la crisi imperversa.
Piero Ostellino