Nadia Fusini, la Repubblica 21/6/2013, 21 giugno 2013
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È appena uscito il Meridiano che Mondadori dedica a Alice Munro, dove Marisa Caramella con perizia e gusto raccoglie i suoi racconti migliori, quando arriva la notizia che la scrittrice canadese ha annunciato che no, lei non scriverà più. E difatti da più di un anno al suo editor non arriva niente. L’aveva già detto altre volte, viene da pensare d’istinto a chi ama i racconti della Munro. L’ultima volta in una recente intervista: «Non che non abbia amato la scrittura», aveva detto, «ma forse quando si arriva alla mia età non vuoi più essere sola come uno scrittore deve essere». E aveva aggiunto: «Smetto per quella strana idea di essere “più normale”».
L’aveva già detto e non l’ha fatto. Il che non significa che menta. Al contrario. Ogni autentico scrittore insieme alla gioia di scrivere, ha anche l’impulso contrario a tacere. Quando lo vince, è perché lo trascina una volontà prepotente e ostinata di mettersi alla prova: provare a dire, provare a esprimere il proprio mondo interiore. Ora evidentemente Alice è stanca. Ha ottantuno anni. Vuole semplicemente vivere. Chissà. Meno di un anno fa anche Philip Roth ha preso la stessa strada, quella del silenzio.
Ci eravamo abituati alla voce della Munroe, una voce che si era costruita negli anni con tenacia. Riconoscibile e tutta sua. Di uno scrittore di racconti, si sa, il modo più semplice di lodarlo è dire che somiglia a Cechov. Di uno scrittore realista il modo migliore per promuoverlo è quello di dire che ricorda Flaubert. In Italia, come nel più vasto mondo delle recensioni, comprese le colleghe Cynthia Ozick e Antonia Byatt, di Alice Munro hanno detto: è come Cechov, come Maupassant. Ma sono scorciatoie. Alice Munro non somiglia né all’uno né all’altro. Né serve evocare Faulkner e la sua contea di Yoknapatawpha — a lei Faulkner “non piace”. Volendo conoscerla attraverso il paragone, come spesso si fa con le cose nuove, serve di più evocare Carson McCullers, Katherine Anne Porter, Eudora Welty, Flannery O’-Connor — scrittici “regionali” che dichiara di leggere e ammirare. Anche se c’è una tonalità di miseria e di sventura tutta propria al paese in cui lei, Alice, vive.
La geografia è importante, come ormai da tempo la critica accademica ci segnala. Munro è canadese, e questo conta. Non per un orgoglio nazionalista, su cui peraltro la sua fama è anche cresciuta, perché il suo paese voleva, fortemente voleva una letteratura “canadese”, e insieme a Margaret Atwood e Margaret Laurence, per citare una volta tanto solo donne scrittrici, Munro è stata anche la mascotte di un’emancipazione culturale e politica.
Ma non è per questo che conta la geografia: sono essenziali le atmosfere, i paesaggi naturali e umani — e cioè, il “materiale” delle sue trame. In un racconto che porta proprio il titolo Materiale, è la stessa protagonista a dirci di che si tratta: «È tutta la vita che non ho un soldo. La gente dice che i soldi non sono importanti, se c’è la salute, ma quando mancano tutt’e due? Broncopolmonite cronica da quando avevo tre anni. Febbre reumatica a dodici. A sedici anni mi sono sposata la prima volta, mio marito è morto in un incidente tagliando alberi. Tre aborti. Ho l’utero distrutto. Mi vanno via tre pacchi di assorbenti al mese. Ho sposato un allevatore della Valle, e la mandria s’è ammalata di febbre bovina. Siamo andati in rovina. Lui era quello morto di male ai reni. Sfido io. Sfido io che ho i nervi a pezzi». Anche in traduzione — e questa è la traduzione perfetta di Susanna Basso — non può non balzare all’orecchio che non è Cechov, né Flaubert, né Faulkner.
Chi è allora Alice Munro? È una scrittrice nata in Canada, scrive in lingua inglese, ha un talento che si esprime al meglio nella forma breve. Ha un talento unico e proprio: un realismo niente affatto magico, piuttosto crudo, che induce il lettore a credere di avvicinare la “vera” realtà, quando tocca una soglia minima, dove la vita si confonde con la non-vita. «Che cosa ho detto? Vita? Volevo dire Morte… Chiedo scusa». Nel lapsus del personaggio di Una cosa che volevo dirti la vita e la morte si confondono in un medesimo tono vitale «acuto, monotono, insistente e segnato da una dolcezza calcolata, crudele».
C’è del sadismo e del masochismo in ogni racconto: è questa la chiave estetica di Alice Munro. Ha cominciato così con i primi racconti confinati nel tempo e nello spazio di una depressione storica e geografica e mentale, quella degli anni del dopoguerra in un’area rurale stretta tra Toronto e il lago Huron. Comicia da lì quando da ragazzina strana qual è si mette a scrivere. «Mi sembrava», confessa «che le donne potessero scrivere solo dei freaks, degli emarginati». E questo fa e impara a farlo sempre meglio, raffinando con acribia la sua macchina narrativa. È una lavoratrice, Alice Munro. È metodica. Meticolosa. Diventa via via sempre più brava nella “stessa cosa”. Addirittura trasforma il rischio della ripetizione nel dono della variazione, e nel vantaggio di soddisfare l’assuefazione dei suoi lettori affezionati. Sempre più affezionati alla “stessa cosa”: è a questa domanda regressiva, come i suoi ambienti, i suoi sentimenti, la sua tecnica, che noi abbocchiamo. Tutti noi che come lei siamo cresciuti “ai margini”: perché tutti siamo stati bambini, strani, tristi e abbiamo avuto una madre e un padre che si sono ammalati e sono morti. Tutti abbiamo avuto un romanzo famigliare.
Al suo personale mondo di memorie Alice Munro ha attinto a piene mani. S’è forse disseccata la fonte della sua fantasia e immaginazione? Ha forse detto tutto? Chissà. In un’intervista di qualche tempo fa, è lei stessa a sottolineare il paradosso: ha scritto contro tutto e tutti, le figlie, la casa, il decoro borghese… E ora, ora che non deve combattere, che non sottrae il tempo e l’attenzione a nessuno, ora per l’appunto si prende la libertà di smettere.