Filippo Ceccarelli, la Repubblica 21/6/2013, 21 giugno 2013
LA GIOIOSA MACCHINA DA GUERRA E QUELLA OSSESSIONE PER D’ALEMA MEMORIE DELLO SCORDATO OCCHETTO
DO YOU remember Achille Occhetto? Ecco, Achel (e non Akel, come precisato) ha scritto le sue memorie. Non è la prima volta, ma queste sono più complete, più appassionate, più buffe, a tratti, e più sofferte. In una parola – e si perdoni – più occhettiane.
Di solito i ricordi dei leader si rivelano noiosi, monocordi e interessati. Queste 300 pagine dell’uomo che ha messo fine al Pci si possono leggere con altro spirito. Usciranno a breve per gli Editori Riuniti Internazionali con il titolo «La gioiosa macchina da guerra», e già in questa rivendicazione s’intuisce la provocazione, ma anche il gusto per l’improvvido ossimoro a sfondo mitologico (lo «zoccolo duro», il «nuovo inizio ») che con i dovuti inciampi e fraintendimenti ha per anni allietato e sfibrato la storia non solo espressiva della sinistra in Italia.
Ebbene, riguardo alla famosa macchina bellica che perse contro Berlusconi nel 1994, e a cui Occhetto fu a lungo impiccato, si legge qui, baldanzosamente, che si trattò di un equivoco, o di un’espressione «dai toni del tutto ironici». Furono i giornalisti, complici e ammiccanti, a sollecitargli un giudizio sul cartello elettorale progressista: «Prestandomi al gioco, pensai di pronunciare una frase scherzosa e sdrammatizzante. Stavo per dire: “È un’armata Brancaleone”, poi mi morsi la lingua e pronunciai la fatidica formula magica».
Pochi politici sono impulsivi, sinceri e sfacciati come Occhetto. Ma forse proprio questi suoi tratti spiegano perché, di tutti gli oligarchi del Pci-Pds-Ds-Pd, egli è rimasto l’unico – e gli torni a merito - eliminato per sempre, l’«empio» sottoposto a damnatio memoriae.
Ora, è anche vero che «il mio orgoglio - come riconosce - è smisurato », pure richiamando «l’ira di Achille », tra parentesi: «Quello più famoso ». Ma più che levarsi sassolini dalle scarpe, si capisce che ha scritto questo libro per esprimere tutto il senso di una impietosa e spaventosa ingiustizia consumata ai danni di un animo al tempo stesso nobile e fragile; comunque tale da dedicare una dozzina di pagine al suo carattere, inframezzate da valutazioni cosmiche, Leopardi e Shakespeare, oltre a pensieri anche interessanti sulla società delle formiche, le deiezioni dei cani e il corteggiamento dei pesci.
Si capisce anche, e anche qui con la più assoluta schiettezza, che Occhetto patisce una sorta di dolorosa ossessione nei confronti di D’Alema, i cui comportamenti assimila al «male oscuro». Pensare che fu Craxi a metterlo sull’avviso: «Caro Achille, sento che in tv e sui giornali questo D’Alema dice sempre “io... io”, a fare intendere che lui parla solo a nome suo, e questo non va bene».
Con Bettino si conoscevano dai tempi della politica universitaria. Prima della svolta del 1989, Occhetto gli propose di passare all’opposizione. «”Vedi, Achille - fu la risposta - se io vado anche solo un giorno all’opposizione, questi qui mi fanno fuori”, e fece con la penna in mano un ampio giro del braccio tutt’intorno alla sua stanza».
Però poi Occhetto flirtava anche con Martelli, e s’imbarcò nell’avventura referendaria con Segni, che avrebbe voluto premier. Strepitoso anche il modo in cui racconta la stretta sul governo Ciampi, con il leader asserragliato dai maggiorenti del Pds che resistono e Scalfaro che telefona una, due, tre volte, sempre più infuriato, per ottenere il sì. Lui glielo concede, per poi ritirarglielo poco dopo.
Così è il personaggio. Inventivo, impulsivo, approssimativo. Generoso, curioso, precipitoso. Enfatico e impudico, ma autentico, nel suo spiccato e poetico egocentrismo. Definisce «miele» il colore di Torino, dove cresce, figlio di intellettuali, bimbo nella Resistenza, il conte della sinistra Cristiana Felice Balbo padrino di cresima, Bollati gli dà ripetizioni, in giro per casa ci sono Einaudi, Calvino, Pavese.
A Torino cerca lapidi di Nietzsche; ma vive benissimo anche a Palermo tra nobili, dame e operai dei cantieri navali. A Roma abita dinanzi alla statua di Giordano Bruno, frequenta gli stessi ristoranti di Pasolini, conta le siringhe che i tossici gli lasciano nel portone di casa.
Un giorno, in un bosco acquitrinoso, scopre che la sua vita ha «qualcosa di paradigmatico», rispecchiando la seconda metà del 900. È come se fosse sempre dentro un film, tratto dal romanzo di se stesso, con tentazioni tolstojane, proustiane. Odori, sapori, leggende di avi, la nonna che perde la fede cedendo a un prete dentro un confessionale, le prime erezioni stimolate da una tata montanara...
Forse troppo. E però, sugli angoli e angoletti del Pci c’è una miriade di fatti e fattarelli. L’orologio con sveglia che Togliatti usa per fulminare chi parla più di dieci minuti. Gli indimenticabili funerali con pugni chiusi e segni della croce. Una cena incredibile a Pechino in cui i dignitari del Pcc esplodono a ridere prefigurando l’apocalisse nucleare. Un incontro con Berlinguer che già nel 1974 pensava di cambiare nome al Pci.
Ma soprattutto, prima e meglio di ogni altro Occhetto percepisce la fine di un mondo: «Sentivo che la nostra storia stava per finire». Avverte di dover «fare qualcosa». Spia ogni evento, si «rannicchia come un gatto pronto a saltarci sopra». Ma poi, dopo il balzo, prova a placare lo stress facendosi insegnare canto da Aureliana, la terza moglie, l’unica nominata.
Questo è dunque Occhetto. Con estremo e reiterato candore confessa di godere degli applausi ai comizi; rilegge le foto dei baci di Capalbio tra il polemico e il lamentoso; nega il patto del garage con D’Alema; tace sulla defenestrazione di Natta e sugli improperi di Cossiga, che lo qualificò “Zombie coi baffi”. In compenso su questi ultimi è prodigo di ricordi, legati all’invasione della Cecoslovacchia.
È raro, ma a volte perfino il narcisismo riscatta i bruciori e i sopori delle autobiografie. Perché la storia sarà anche fatta di grandi e piccole cose, ma gli uomini tengono insieme le une e le altre.