Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 21 Venerdì calendario

NON È UN PAESE PER CANTAUTORI

[Colloquio con Francesco Guccini] –
Bussano alla porta che è ora di pranzo. Francesco Guccini si alza lento da una sedia della cucina e va a vedere chi è. «Buongiorno!», gli sorridono sei ragazzi e ragazze della provincia senese. Avranno massimo 16, 17 anni. «Sia mo passati per salutarla », esordiscono timidi. «È finita la scuola, eh...», risponde Guccini con aria paterna, barba candida sulla carnagione rosea. E loro: «Sì, finalmente. Abbiamo viaggiato in treno fino a Bologna, poi in corriera su per la strada Porrettana, ed eccoci qua». Totale cinque ore di viaggio. Attorno regna un silenzio antico. Pavana, frazione di Sambuca Pistoiese, 600 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano, è a un’ora d’automobile da via Paolo Fabbri 43 e a un secolo dalla frenesia urbana. Un limbo in cui il Maestrone, il Guccio, il celebrato Guzèn insomma, si muove con dolcezza, concedendosi sempre e comunque ai tanti che arrivano per stringergli la mano, scattare una fotografia assieme «e regalarmi, spesso, bottiglie di vino». Adorazione quantomai scontata, in questi giorni, per via del compleanno numero 73. «Non sono più ufficialmente un bambino», scherza Guccini accarezzando la gatta nera Paurina e citando la figlia Teresa trentacinquenne. E forse anche per questo, accetta di ripercorrere con “l’Espresso” la sua carriera e il tragitto dell’Italia dagli anni Sessanta a oggi. Partendo, gioco forza, da una fine traumatica: ovvero dalla sua decisione, presa dopo 24 dischi e infiniti successi,«di non salire più su un palco, di non scrivere più canzoni e tantomento di incidere nuovi cd».
Non è che fa come con le sigarette, che prima ha smesso di fumarle e ora ne riaccende una via l’altra?
«Mannò, questa è una cosa diversa. La verità è che non ce la faccio davvero più. È morto il mio produttore e amico storico, Renzo Fantini, e si è esaurita anche la mia vena da compositore. Era giusto prenderne atto. Pensare che una volta mi sentivo male, se non suonavo tutti i giorni la chitarra. Adesso invece saranno sei mesi, che non la tocco neanche».
Lo dica lei, prima che ci pensino gli altri: come vorrebbe fosse ricordata la sua vita sul palco?
«Vorrei che mi si riconoscesse il titolo di cantautore abbastanza serio. Nel senso che anch’io, come il poeta latino Orazio, avevo l’ambizione di costruire qualcosa che resistesse al tempo, e credo in fondo di esserci riuscito».
Discorso tipico da venerato maestro, quale a tutti gli effetti lei è.
«Mah. A volte continuo a trovarmi più a mio agio nel comparto arbasiniano dei “soliti stronzi”. Colpa dell’educazione che ho ricevuto, forse. I miei genitori non hanno cullato il mio ego: anzi, lo tenevato “masato”, basso. Quando ho portato a casa il primo contratto, 100 mila lire ottenute dalla casa discografica Emi, mio padre commentò: “E quanto durerà, ’sta cosa?”. È sempre stato così. Ancora pochi anni fa, quando dicevo a mia mamma che partivo per un lavoro, scuoteva la testa: “Lavoro? Ma se vai a cantèr...”».
Resta il fatto che pochi, tra i cantautori italiani, hanno ricevuto quanto lei dal pubblico affetto e gratitudine. C’è un concerto, tra i mille tenuti, a cui è rimasto legato?
«Premetto che sono un uomo ansioso. Molto ansioso. Ancora oggi, per capirsi, sogno che sto cantando e non mi ricordo le parole. Oppure che non trovo i musicisti. Incubi bestiali. Dunque non ricordo un concerto sereno. Piuttosto non posso dimenticare cos’è successo quando, negli anni Sessanta, è venuto a Bologna il poeta beat Gregory Corso. Mangiamo e beviamo a cena in quantità importante. Poi arriva la notizia che c’è stato un incendio in una segheria, e armati di bottiglia restiamo fino all’alba a vedere il fuoco. Il giorno seguente, in condizioni approssimative, parto per far spettacolo a Viterbo. Dopodiché riparto ancora per cantare a Roma davanti a 40 mila persone. Prima di iniziare, per onestà, avverto tutta quella gente che ero svociato. E con stupore scopro che non gliene importa niente, che vado bene lo stesso...».
La storia, per la cronaca, inizia nel 1961. Lei, figlio di Ferruccio impiegato alle Poste e di Ester, casalinga, ha ventun anni. E mentre l’Italia annusa incerta i primi indizi di boom, scrive “l’Antisociale”: brano in cui attacca le piccinerie de «l’avvocato, il borghese, l’arrivato», o anche del «bravo e onesto padre di famiglia » che pensa soltanto a sistemare la figlia. Capì subito la potenza del pezzo?
«Per niente. Tra l’altro, io all’epoca non attraversavo particolari disagi. Frequentavo un gruppo di ragazzi sofisticati che provavano a scrivere in modo originale e contemporaneo. Un giorno è passato da casa mia un tale che, ispirandosi al titolo de la “Vie en rose” di Édith Piaf, aveva scritto la militante “Vedo la vita in rosso”. Quel giorno mi è venuta l’ispirazione per “l’Antisociale”».
Reazioni immediate?
«Zero successo e zero denari. In compenso, qualche imprevedibile conseguenza.
Tipo?
«Parto per il militare, allievo ufficiale di fanteria, e finisco in una caserma sull’altipiano friulano. Lì un maggiore mi sente cantare “l’Antisociale” e se ne innamora. Gli piace al punto che mi trascina al comando generale di Udine per farmi esibire davanti ai superiori. Più ascoltavano il testo, più le facce diventavano di ghiaccio. Una scena atroce».
Più o meno la stessa reazione che avrebbero oggi le case discografiche, se uno sconosciuto volesse incidere un disco come “Folk beat n.1”, che lei ha interpretato nel 1967 con brani come “Noi non ci saremo”, “In morte di S.F.”, “L’atomica cinese”, “Auschwitz”. I temi erano il suicidio, gli incidenti stradali, la miseria sociale, l’Olocausto, la guerra... Prodotto improponibile, nel mercato del 2013.
«Beh, anche allora è stato un flop totale. E non solo sul fronte delle vendite. Un giorno, mentre registravo a Milano “Auschwitz”, si avvicina un tecnico della Emi in grembiule bianco. Chiede: “L’ha scritta lei questa canzone?”. “Sì”, gli confermo: “sono io l’autore”. E lui: “Mi sa che le conviene cambiare genere, perché così non va lontano...”».
L’ennesima delusione.
«Per modo di dire. Il mio sogno, in realtà, non era quello di fare il cantautore. Volevo entrare nei giornali e affermarmi in seguito come romanziere. Lo vedevo come un percorso possibile, tant’è che per qualche tempo ho lavorato alla “Gazzetta di Modena”. Anche nel mio primo disco, non a caso, contavano le parole più delle note. Sentivo l’influenza degli artisti francesi come Jacques Brassens, che univano il cabaret satirico alla musica vera e propria».
Raffinatezze che presto si sono incrociate con i giorni della contestazione, del sogno rivoluzionario sessantottino e dell’entusiasmo per le parole forti, assolute. Un mondo in cui si sentiva a suo agio, a 29 anni?
«Diciamo che partecipavo alle occupazioni, e che sentivo come tutti l’esigenza di un cambiamento. Tra l’altro, in quel periodo avevo una bella storia con una ragazza americana che si chiamava Eloise, il cui fratello negli Stati Uniti aveva stracciato la cartolina di precetto. Ciononostante la rivolta non è riuscita a scaldarmi più di tanto il cuore. Prevaleva il sospetto verso i cosiddetti capipopolo, quelli di Lotta continua che poi sarebbero andati a lavorare per Silvio Berlusconi».
In effetti lei ha sempre detto, e scritto, che non si cambia il mondo a colpi di canzoni. Però nella “Locomotiva”, anno 1972, esaltava il vento dell’anarchia, della giustizia proletaria, della ribellione alla razza padrona.
«Verissimo. Ma non bisogna confondere la militanza vera e propria con il romanticismo anarchico. Io mi ispiravo a questo, con la “Locomotiva”. Era una forma di canzone popolare a cui ho dato ampio spazio, nel disco “Radici”. Tutti insistevano a gridare che volevano distruggere tutto, e io invitavo a recuperare le proprie origini: sia morali che politiche».
Chi sono gli artisti che frequentava, al tempo?
«Una sera siamo tra amici, a Bologna, e c’è pure Fabrizio De André. Gli diciamo che ci piacerebbe sentire una sua canzone, e lui risponde: “D’accordo, però spegnete la luce che sennò mi vergogno”».
Più intimo e risolto è stato il rapporto con Giorgio Gaber.
«Mi piaceva molto parlare con lui. Quando suonava a Bologna, finivamo regolarmente all’Osteria da Vito. L’unico rimpianto è non avergli detto che non ero d’accordo quando, nel 2001, cantava “La mia generazione ha perso”. Secondo me la nostra generazione non ha perso: non avrà forse stravinto, ma ha fatto cose importanti».
Ciò non toglie che, lungo la strada, abbiate sbattuto contro pesanti delusioni. Lei, ad esempio, si è dichiarato socialista fino agli anni Settanta, dopodiché è arrivato Bettino Craxi.
«Un problema, per me che ero nenniano. Ricordo che una sera, anni Ottanta, stavo cantando al festival veneziano dei giovani socialisti. Di colpo sale sul palcoscenico un organizzatore. “Mi scusi”, sussurra: “dovrebbe interrompersi un attimo perché vuole intervenire Craxi”. “Guardi che sto lavorando”, rispondo. Ma non c’è niente da fare. Allora mi rivolgo al pubblico: “Abbiate pazienza, c’è un altro cantante che chiede il microfono”».
Anni dopo, in epoca Mani Pulite, arriveranno le monetine contro il leader del Psi all’Hotel Raphael. Che impressione le fece, quell’episodio?
«Non mi ha dato particolare fastidio, nel senso che era la conseguenza di un’intera stagione. Ciò detto, mi disturbò che non fosse una contestazione spontanea. A me piacciono trasparenza e coerenza: hai qualcosa da dire? Fallo in maniera schietta».
Uno stile che lei ben conosce. A metà degli anni Settanta, quando il critico Riccardo Bertoncelli stroncò il suo album “Stanze di vita quotidiana”, lo attaccò a muso duro in un verso de “l’Avvelenata”». Lo rifarebbe?
«Certo che no. Già all’epoca ero perplesso sull’ipotesi di inserire quel brano in un disco. Poi è diventato uno dei miei pezzi più richiesti. Si sa che al pubblico piacciono le invettive, ma in generale non è il mio pane».
C’è invece un verso, fra quelli che ha scritto, di cui va molto fiero?
«Mi piace l’inizio di “Amerigo”, dove cantavo “Probabilmente uscì chiudendo dietro a sé la porta verde”. O anche il passaggio di “Autogrill” in cui sono riuscito a riassumere bene il concetto del tamburellare su una scatola di latta con sopra disegnato un indiano».
Ma come? Uno si aspetterebbe il suo attaccamento alla consapevolezza maliconica di un verso tipo «Ma s’io avessi previsto tutto questo...»; oppure alla dolente attesa dello schianto contenuta in «Lunga e diritta correva la strada...»; oppure ancora, all’ottimismo fragile di una strofa come «gli eroi son tutti giovani e forti!».
«Cosa posso dire... A me dà soddisfazione essere stato forse l’unico cantautore a iniziare un brano con un avverbio (“probabilmente”, per l’appunto). Fa parte della mia dimensione letteraria, del mio considerarmi un artigiano che è riuscito, senza ingannare nessuno, a mettere una accanto all’altro parole e musiche con esiti apprezzabili».
Poi però c’è anche l’altro Guccini: quello che è presto diventato un simbolo, un’icona con barba e chitarra, un punto di riferimento etico e sociale.
«Che imbarazzo...».
Insomma: lei si schierava negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, e ha continuato a farlo fino a oggi. Di Berlusconi e del centrodestra, per dire, ha dichiarato che non sopporta «la supponenza, l’alterigia, il lusso e i vulcani finti».
«Confermo. Qualche mese fa ho visto Berlusconi ospite dal “Servizio pubblico” di Michele Santoro e ho trovato la sua esatta definizione. È un “ciocca-piatti”. Uno di quei venditori che, sulla piazza paesana, sbattono i piatti uno contro l’altro per dimostrare che è merce buona. Capisco che alle platee televisive possa piacere, tutto questo, ma io lo trovo antipatico».
Meglio il Pd, di cui lei spesso si è dichiarato elettore, che dopo avere urlato contro Berlusconi per anni e anni, ora ci governa assieme?
«Lasciamo perdere... Dicevano: “Con lui, mai”. Raccontiamoci che l’hanno fatto per il bene del Paese, perché Beppe Grillo non si è voluto alleare con loro».
Lo ammetta: sarebbe materia preziosa, per un suo disco satirico.
«Figurarsi. Io ho chiuso: lascio il campo ai rapper, che sono gli unici ad affrontare questi temi. Mia moglie Raffaella dice che è bravo Fabri Fibra, ma non confermo perché da tempo non ascolto più musica».
Non faccia così: ci ripensi, Guccini. Non si ritiri... Guardi che Vasco Rossi, ancora l’altro giorno, ha riempito uno stadio con 40 mila persone.
«Ma io non sono, e non sono mai stato, come Vasco, o come i miei amici Ligabue e Zucchero. Loro credono molto in quello che fanno e non vedono l’ora di buttarsi in un disco. Io invece ero sempre contento quando l’avevo finito, il disco. Diverso è con i libri: lì non mi viene l’ansia. Da quando, nell’89 ho pubblicato “Cronache epifaniche”, sono entrato in un nuovo piacere».
In bocca al lupo, allora, per il secondo “Dizionario delle cose perdute” che sta finendo di scrivere. Ma anche per “L’ultima Thule”, il docufilm poetico di Giuseppe Conversano e Nene Grignaffini in cui è documentata la registrazione del suo ultimo cd. Vuole almeno lasciare un consiglio, ai ragazzi che iniziano ora a scrivere e cantare canzoni?
«Volentieri. Li invito con affetto a cambiare mestiere: quello di noi cantautori è stato un dolce stil novo, e si sa che queste cose non succedono spesso».