Lirio Abbate e Paolo Biondani, L’Espresso 21/6/2013, 21 giugno 2013
AGUSTA, COSA NOSTRA E IL FACILITATORE
Mafia, armi, tangenti, faccendieri italiani e politici africani. C’è una nuova inchiesta che scotta sugli affari internazionali di Finmeccanica. Le procure di Palermo e Napoli stanno indagando sui contratti ottenuti dal colosso statale dell’aeronautica nel Continente nero. Dopo l’istruttoria sulle presunte tangenti da 30 milioni di euro pagate fino al 2012 per vendere elicotteri militari all’India, che nel febbraio scorso ha provocato l’arresto dell’allora numero uno del gruppo italiano, Giuseppe Orsi, che si è sempre proclamato innocente, gli inquirenti hanno continuato a indagare sul ruolo dei mediatori e "facilitatori" in altri quadranti esteri. Ora nell’occhio del ciclone c’è un manager che fino a pochi mesi fa rappresentava Finmeccanica in tutta l’Africa sub-sahariana. Ed è pure sospettato di essersi fatto sponsorizzare da uno dei più ricchi e potenti riciclatori di Cosa nostra.
La nuova inchiesta parte proprio da lui, Vito Roberto Palazzolo, grande tesoriere della mafia siciliana. Una vita da film, la sua. Nato il 31 luglio 1947 a Terrasini, a pochi chilometri da Palermo, Palazzolo resta orfano di padre ed emigra all’estero, tra Germania e Svizzera. All’inizio degli anni Ottanta viene coinvolto nella prima maxi-istruttoria del giudice Giovanni Falcone, che passa alla storia come "Pizza Connection": il magistrato di Palermo riesce a provare che i boss di Cosa nostra hanno conquistato il dominio mondiale dei traffici di eroina, con «almeno 5 mila chili di morfina-base importati dalla Turchia, raffinati nei laboratori della mafia in Sicilia e spacciati negli Stati Uniti attraverso una fitta rete di pizzerie e ristoranti». Palazzolo, che ha forti agganci nelle banche svizzere, ha il compito di riciclare gli enormi profitti del narcotraffico: gestisce i conti segreti di numerosi mafiosi, reinveste «decine di milioni di dollari» in società insospettabili e provvede pure a riportare «sacchi di soldi in contanti in Sicilia, consegnandoli personalmente nelle mani dei capimafia, a cominciare da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano», a cui è legatissimo.
Il 20 aprile 1984 la carriera di Vito sembra finita: viene arrestato e condannato in Svizzera. Ma alla vigilia di Natale del 1986 riesce a evadere, approfittando di un permesso di 36 ore. Due giorni dopo entra in Sudafrica con un passaporto elvetico falsificato e sistema la sua posizione corrompendo, tra gli altri, un onorevole del Partito nazionalista bianco, al potere negli anni dell’apartheid. Scovato e riarrestato, sconta nel carcere di Lugano l’intera pena, nel frattempo ridotta a cinque anni di reclusione. Tornato libero, rientra in Sudafrica. E qui, mentre in Italia i giudici gli infliggono altre due condanne, mai eseguite, diventa ricchissimo. Con la montagna di soldi che ha realizzato compra tutto in Sudafrica, compresi poliziotti, politici e rappresentanti del governo. Il tribunale di Palermo, nel 2006, riassume così «l’immenso patrimonio» da lui gestito: «Palazzolo risulta essere da anni uno dei più influenti uomini d’affari dell’intero Sudafrica, proprietario di numerose miniere di diamanti, di estese aziende agricole, di un’industria per l’imbottigliamento di acque minerali (fornitrice della compagnia aerea di bandiera), allevamenti di struzzi e di cavalli da corsa, svariate concessioni per l’estrazione di preziosi e un ingentissimo patrimonio immobiliare e finanziario».
In Italia, nel frattempo, una decina tra i più importanti pentiti di mafia, da Franco Di Carlo a Nino Giuffrè, rivelano che Palazzolo non è solo un colletto bianco, ma un mafioso a pieno titolo, ritualmente affiliato a Cosa nostra dagli anni ’70 e rimasto sempre «a disposizione», anche in Sudafrica. Tanto da ospitare almeno due boss latitanti pure nel 1996, dopo le stragi e l’arresto di Riina. Da allora continua a gestire «varie società con boss mafiosi» e «una miniera di diamanti per Provenzano». Nel marzo 2009 la Cassazione rende definitiva la nuova condanna a nove anni per mafia, ma Palazzolo resta intoccabile. Diventato cittadino sudafricano, con il nuovo nome di Robert Von Palace Kolbatschenko, riesce a far respingere la richiesta di estradizione che la procura di Palermo ha presentato alla locale Corte suprema, per problemi giuridici: in Sudafrica non esiste il reato di associazione mafiosa. Quindi continua a fare affari, dalla Namibia all’Angola, e a vivere nella sua tenuta da sogno a Franschoek, dove riceve politici, imprenditori e generali che accettano regali. L’imprevisto arriva a fine estate del 2011.
I carabinieri di Napoli stanno intercettando i primi colloqui sulle presunte corruzioni internazionali di Finmeccanica. Un dirigente di una società controllata che lavora in Sudamerica spiega a un amico, al telefono, che nel gruppo c’è del marcio: gli confida, in particolare, che un certo Francesco Maria Tuccillo, rappresentante di Finmeccanica per tutta l’Africa subsahriana, è stato «già fatto fuori». Il vero motivo? Ha detto in giro che «Agusta in Sudafrica si era appoggiata a soggetti appartenenti a organizzazioni mafiose».
Agusta Westland è la grande industria di elicotteri, civili e militari, che ha un peso strategico per il colosso pubblico. E in quell’azienda con sede a Busto Arsizio ha fatto carriera anche Orsi, nel frattempo diventato il numero uno (su indicazione della Lega) di tutto il gruppo statale. Tuccillo è un avvocato napoletano con un curriculum sensazionale (consulente del governo provvisorio americano dopo l’occupazione dell’Iraq), una casa a Nairobi e un papà principe del foro (ambasciatore dell’Ordine di Malta e difensore del cardinale Michele Giordano). E in effetti il quarantenne Tuccillo era diventato nel 2009 il factotum di Finmeccanica nell’area subsahariana, ma ha perso l’incarico all’improvviso, all’inizio del 2011. Ed è allora che i pm di Napoli lo interrogano. E Tuccillo risponde e parla di Palazzolo. A quel punto i magistrati partenopei allertano Palermo: c’è puzza di mafia. Nel 2012 Tuccillo viene sentito come testimone dalle due procure e spiega che all’origine dei suoi sfoghi con i colleghi c’era proprio la scoperta del ruolo di Palazzolo.
Tuccillo giura di averlo incontrato in un viaggio d’affari in Africa: anche se per l’Italia era un mafioso latitante, Palazzolo avrebbe partecipato a un vertice organizzato da Finmeccanica, in qualità di "facilitatore", un super-mediatore in grado di sbloccare trattative in Sudafrica, Angola e altri Stati africani. Il testimone precisa che all’epoca non sapeva neppure chi fosse quel signor Von Palace e di averlo capito solo dopo aver letto un libro su Cosa nostra che parlava di lui. Ma chi portò Palazzolo in Finmeccanica? Tuccillo risponde che a lui fu accreditato dal manager Patrick Chabrat, già vicepresidente di Agusta, allora responsabile delle vendite dell’industria di elicotteri per l’Africa subsahariana: un fedelissimo di Orsi, insomma. Quando un articolo di "Nigrizia" svela che Tuccillo sta parlando con i magistrati, l’ufficio stampa di Finmeccanica smentisce tutto, a nome sia di Orsi che di Chabrat, e minaccia azioni legali in grado di rovinare la storica rivista dei missionari comboniani. Invece sembra proprio che anche le procure ogni tanto lavorino per conto di Dio. A Palermo il pm Gaetano Paci approfondisce l’inchiesta con il Gico della Guardia di Finanza. Che riesce a trovare un secondo testimone oculare. E imbocca nuovi filoni di indagine che paiono essere un vaso di Pandora. Il testimone è un altro manager italiano di una società mista che produce aerei, creata da Finmeccanica con un gruppo aeronautico straniero. Anche lui testimonia di aver incontrato Palazzolo, alias Von Palace, a un vertice d’affari, probabilmente in Angola, con due dirigenti di Finmeccanica. «Ce lo ha presentato Chabrat», gli dissero i due colleghi, spiegando che fu lo stesso superiore a farli viaggiare insieme a quello strano «collaboratore del gruppo per l’Africa del Sud». Presentandosi, il signor Von Palace gli lasciò un biglietto da visita, con annotazioni scritte di suo pugno. E ora il testimone ha consegnato tutto agli inquirenti, mettendoli in grado di riscontrare il suo racconto anche con una perizia grafica.
Di qui la svolta. La procura di Palermo comincia a indagare direttamente su Chabrat, che dal 2000 è il fiduciario di Orsi in Africa. E in breve emergono nuovi elementi, considerati pesanti: l’inchiesta ancora è segreta, per cui non è chiaro se si tratta di intercettazioni, messaggi, registrazioni, documenti, testimonianze o quant’altro. Fatto sta che Chabrat ora viene accusato di aver parlato apertamente di fondi neri da creare attraverso triangolazioni societarie all’estero: soldi necessari a pagare «ministri africani». Insomma, un altro giro di tangenti milionarie gestite da Finmeccanica, una nuova accusa che chiama in causa un manager legato a Orsi.
L’inchiesta è un calderone di veleni. Chabrat è sospettato tra l’altro di essere l’ispiratore di una serie di minacce che hanno spaventato il secondo manager italiano: quando ancora nessuno sapeva che fosse un testimone d’accusa, si è sentito dire che, per salvarsi la vita, gli sarebbe servito un bel «programma di protezione». Oltre a Palazzolo nella nuova istruttoria emergono i nomi di altri faccendieri spregiudicati. Come un certo Sainesh Vithlani, assunto come lobbysta del gruppo aeronautico inglese Bae e accusato dalla polizia di Londra di aver corrotto politici e ufficiali in Tanzania con tangenti per 12 milioni di dollari.
A questo punto gli inquirenti di Palermo hanno separato il troncone d’inchiesta e con il suo carico di voluminosi documenti l’hanno già trasmesso ai magistrati di Napoli, i primi a indagare su Finmeccanica. Ma il nuovo fascicolo sugli affari africani potrebbe interessare anche alla Procura di Busto, che già indaga su Agusta per le tangenti in India, e a quella di Roma, che ha l’istruttoria-base su tutto il gruppo. Di certo le inchieste, dopo aver provocato il ricambio forzato del vertice aziendale, ora stanno cambiando anche la posizione dei testimoni e la stessa linea del gruppo. Dopo l’arresto di Orsi, Chabrat è stato allontanato per volontà del nuovo numero uno di Finmeccanica, Alessandro Pansa. Mentre Tuccillo, il primo teste d’accusa, è stato riassunto in una nuova sede.
Ora a Palermo gli inquirenti attendono soprattutto di poter tornare a interrogare Palazzolo, il custode di mille segreti economici di Cosa nostra, che in Thailandia ha già ammesso senza esitazione di conoscere bene Chabrat. Il miliardario mafioso è stato arrestato il 30 marzo 2012 all’aeroporto di Bangkok: tradito da un viaggio d’affari, da una soffiata e da incauti messaggi su Facebook. Certo, a differenza dei normali detenuti ristretti in camerate da 20 persone, Palazzolo ha una stanza singola nell’infermeria del carcere. Ma la Corte suprema thailandese ha già autorizzato l’estradizione in Italia: la difesa ha tentato un estremo ricorso, che dovrebbe decidersi entro sei mesi. Quando era ancora al sicuro in Sudafrica Palazzolo si dichiarava vittima di un complotto dei pentiti: «Non conosco Riina né Provenzano, per me è una vergogna essere considerato il tesoriere dei due più grandi criminali d’Italia», aveva dichiarato quattro anni fa. «Il vero cassiere della mafia era l’industriale Oliviero Tognoli: in Svizzera ho fatto solo l’errore di trovarmi in una società che trasferiva soldi per lui, ma non sapevo che finissero ai mafiosi». Altro messaggio: «Io non sono il banchiere Calvi né il cardinal Marcinkus».
I magistrati vorrebbero chiarire anche i suoi strettissimi rapporti con Ricky Agusta, fratello della defunta contessa di Tangentopoli e figlio dell’ultimo proprietario privato della fabbrica di elicotteri che porta ancora il nome di famiglia. Appena arrestato in Thailandia, Palazzolo si era detto pronto a farsi interrogare «sui fatti fino al 1984». I pm di Palermo non vogliono porre limiti. Sembrava un principio di collaborazione, in cambio di una "permanenza" agiata nei penitenziari italiani, senza essere sottoposto al 41 bis, il carcere duro. Ma quando gli è stato chiesto dei suoi rapporti con Finmeccanica si è chiuso a riccio. Ha ritirato la sua velata collaborazione e non ha più aperto bocca.