Tommaso Cerno, L’Espresso 21/6/2013, 21 giugno 2013
GLI ALTRI NO TAV
Sotto quel pilone di cemento armato c’è il professor Gigi, che insegna Aristotele e Platone ai No Tav. La pensionata Ermanna, che sforna 20 mila panini l’anno ai sit in. Il pescivendolo Emilio, che regala branzini a chi fa la guerra contro l’Alta velocità. Il benzinaio Agip che lavora per la Erg, mentre il collega è di ronda. E poi gli dà il cambio. C’è la nonna black bloc, protesi all’anca, che tira su nei boschi come una capra: «Prendete me, se ci riuscite!». Sono loro l’altro popolo dei No Tav. L’altra Val di Susa. Quella che pochi conoscono e nessuno racconta mai. Perché si pensa che i fotogrammi di guerriglia nei cantieri di Clarea o della Maddalena, così come i lacrimogeni e i manganelli, siano la protesta più forte e radicale che soffia da queste montagne. Ma non è così. Adesso che è arrivata l’estate e il cantiere scaverà cinque volte più veloce di prima, adesso che sta per essere messa in funzione la "grande talpa", la trivella già nel mirino dei gruppi ambientalisti, "l’Espresso" è tornato a Susa. Per raccontare chi sono gli altri. Quarantamila anime abbarbicate sotto il monte Rocciamelone, in una vallata già sfregiata dalla vecchia linea Torino-Lione, dall’austostrada A32 Frejus e da due statali. Tre generazioni appese al destino di un treno da 300 chilometri l’ora. Nonni, figli e nipoti in guerra contro un mostro d’acciaio.
NUOVA RESISTENZA
Sotto la Sacra di San Michele, il monastero simbolo del Piemonte che dall’alto del monte Pirchiriano sorveglia la grande spianata della Dora, Val Susa ha tutta l’aria di un’italica striscia di Gaza. Larga un paio di chilomentri, lunga una sessantina. A Caprie le bandiere No Tav già sventolano dappertutto. E va così fino a Chiomonte, sopra Susa, e fino al valico del Moncenisio. Ecco, qui non vive solo una comunità montana. Qui non ci sono normali paesi, con i santi patroni e le guerre di campanile. Qui migliaia di famiglie sono in simbiosi fra loro. Legate da un patto d’amore e di lotta più forte del tifo, delle parentele, del voto politico. «C’è il germe di una nuova Resistenza», racconta Maurizio Galliano, assessore del comune di Sant’Ambrogio. Guadagna 120 euro al mese e, quando parla di Roma, grida alla "casta" come Beppe Grillo, che infatti nel suo Comune ha fatto boom. Lui è pronto a lasciare la poltrona per tornare a essere solo un No Tav. Vuole comprarsi un bosco. E mandarci i turisti a sentire i suoni della natura. Non ha paura di pronunciare la parola "scontri". Né di raccontare i lacrimogeni. O i black bloc. E questo perché a Susa il movimento No Tav è, ormai, ovunque. È come un blob, come l’acqua che tracima.
Qui ci si sposa dentro le baracche di legno dei presidi No Tav. Con tanto di foto in abito bianco e bandiera. I bimbi ci fanno la prima comunione sotto quei tendoni diroccati. Qui, per colpa di un treno fantasma, sono saltate amicizie trentennali. Da Franco al ristorante non ci si va con i parenti, che vogliono la ferrovia, ma con gli amici No Tav. Alle feste di paese suonano gratis le bande No Tav. E cucinano i cuochi No Tav. Le maratone sono No Tav. L’Anpi sfila con i No Tav. Gli alpini hanno lo stemma No Tav sul cappello. I tornei di rugby sono No Tav. Il calcio è No Tav. Importa poco se tifi Milan o Juve, importa se tifi treno oppure no. E così per le gare ciclistiche. Come quelle che corre Aldo Giuliano, 49 anni, del Velo Club Val Susa. Pedala in Italia e in Francia senza bisogno di un tunnel, dice. E sulla sua maglia c’è solo una scritta.
Anche il tempo che passa, in Val di Susa, è No Tav. I calendari sulle pareti non mostrano seni nudi, né frati che vaticinano il futuro. Raccontano picchetti, sit in, proteste, botte nel cantiere. I fumogeni della polizia sono i loro fuochi d’artificio a Capodanno. E le ferite da manganello le loro stigmate a Pasqua. Alla scuola elementare, insieme ai libri di testo, si leggono le favole scritte dalle maestre della valle. C’erano una volta i partigiani, oggi ci sono i No Tav. E ancora il festival del cinema è No Tav. E pure la fiera della lettura: "Una montagna di libri contro il Tav". Se vai al bagno, non c’è scritto di lasciare pulito. C’è scritto così: «Ricordati che l’acqua è un bene comune». E qui ci credono.
GANDHI TRA I MONTI
Chi liquida la questione Susa con i black bloc, insomma, si sbaglia di grosso. Chi la mette giù parlando di violenti contro uomini del fare, sbaglia anche lui. Non è storia facile, la protesta di Susa. Né è storia di questi mesi. Tutto comincia nel 1990, dentro uno sgangherato cinema di paese. Si sente un boato. Poi un treno che passa. Non sono i fratelli Lumière e quel coso non va a vapore. È il Tgv francese, lanciato a tutta velocità nelle vallate. A portarlo in quella sala è stato Mario Cavargna, ingegnere del Politecnico di Torino. Ha fissato su un nastro l’urlo di quel serpente di lamiera e l’ha fatto ascoltare ai valsusini. In quei mesi sono nate Habitat e Pro Natura, antenate di una rivolta che oggi ha più di vent’anni.
Quel giorno c’era anche Gigi Richetto. Di mestiere professore di filosofia al liceo scientifico di Bussoleno. Un tipo esile, serafico, con due occhi celesti che trapassano. Da queste parti lo conoscono tutti, eppure nei Tg nessuno parla di lui. Zoppica sul piede sinistro, la voce è un sussurro. Mai uno scatto d’ira. Bene, questo signore è il leader spiriturale dei No Tav. Qualcuno qui lo chiama "Gandhi". E chi è salito in questi anni al presidio di Venaus, o a Vaie, ha potuto vederlo all’opera con la moglie Maria. Come il suo amato Aristotele, a passeggio sui prati alpini, fa lezione di filosofia ai No Tav. Non parla di traffico merci. Né di linee ferroviarie. Per quello ci sono gli ingegneri: «Io insegno la filosofia resistente», racconta a "l’Espresso", «perché la nostra è una democrazia dei corpi, noi siamo sempre in marcia, e non solo contro un’opera inutile, uno spreco di miliardi, soprattutto in difesa della democrazia». E gli assalti? E la violenza? E la guerriglia? «Qualcuno vorrebbe ridurre il movimento No Tav a una questione di ordine pubblico, ma non è così. Negli scontri furono fatte cose canagliesche dallo Stato: bruciarono i libri. È da lì che abbiamo organizzato le lezioni di filosofia nel campeggio No Tav, prima a Chiomonte, dove la polizia tirava i fumogeni, poi altrove. L’idea è trasmettere il senso della misura. È stata commessa una violenza e non vogliamo cadere nella stessa tracotanza. Eppure nessuno racconta questo, agli occhi dell’opinione pubblica i violenti saremmo noi».
Che sia lui a mettere in bella la parabola dei No Tav, lo si capisce pure al mercatino di Condove. Perché là parlano tutti come Richetto. Il salumiere, la parrucchiera, l’ambulante venditrice di cappelli, gli studenti e gli operai. E basta sfogliare un libro di storia della Val Susa per capire che nemmeno questo è un caso. I No Tav, da queste parti, sono nati prima ancora dell’Alta velocità. Siamo nel 1970, quando il treno più moderno faceva poco più dei cento all’ora. A Bussoleno si parlava solo della Moncenisio, la prima fabbrica in Italia a sospendere la produzione di armi su imposizione degli operai. A guidarli c’era Achille Croce, classe ’35, nativo di Condove. Ed era lui, prima di Gigi, il Gandhi della vallata. Attorno a quel voto molti volti noti dei No Tav di oggi, a partire dal leader Alberto Perino. Fino a Richetto, che ospitava l’operaio pacifista nel suo liceo. Anche allora a far lezione di filosofia. Anche allora ai ragazzi della vallata.
SPIRITELLO GIACU
A guardare la rete metallica che ingabbia il cantiere, il filo spinato, il Lince di guardia, l’esercito dispiegato e tutto il resto, ti domandi dove corra, a Susa, il sottile confine fra guerra e pace. Da queste parti la risposta è "Giacu". Già. Proprio come nelle leggende dei pellerossa, di notte, fra i pini, senti spesso invocare lo spiritello: «Giacu! Giacu! Giacu! Uhuhuh...». Mette i brividi ascoltare gli ululati, lungo il sentiero che porta in Clarea, sotto la cima dell’Ambin, dove il cantiere del Tav si sta inghiottendo roccia e bosco. Perché Giacu non è solo leggenda quassù. Giacu prende vita quasi tutte le notti. Da Susa come da Bussoleno, da Caprie come da Sant’Ambrogio, i più combattivi della vallata salgono al cantiere dopo il tramonto. Un modo per farsi sentire. Per tenere alta l’attenzione: «È lì che evochiamo Giacu. Qualcuno grida da nord, qualcun altro da sud», racconta Emilio Scalzo, il pescivendolo della Val Susa. Al mercato non c’è un ambulante che non lo saluti come un fratello. Siciliano, fronte larga, pelle di cuoio, mani come badili, sguardo dritto. Lui sta con la gente, ma sta anche nel ventre della montagna a lottare. Lui un confine netto fra guerra e pace non ce l’ha, né vuole erigerlo: «Quando i poliziotti sentono chiamare Giacu, cercano di capire quanti siamo e da dove veniamo. E noi ci spostiamo sempre e grattiamo con le pietre sui cancelli. Facciamo rumore, serve a tenerli svegli, visto che il governo ci ripete che quel cantiere lavora 24 ore su 24», ride amaro: «Questo è Giacu. L’anima della montagna. Siamo noi. Io, prima dei No Tav, avevo pregiudizi sui centri sociali e sui no global. Oggi dico che sono ragazzi meravigliosi. Il No Tav ci ha aperto la mente. Ci ha fatti adulti».
LAUDATE SUSA
Capita pure di incrociare una Panda lanciata a bomba sulla Statale 25 del Moncenisio. Al volante una signora bionda, sui cinquanta, che sorride sempre. Si chiama Gabriella e, ogni santo giorno, si fa tutta la vallata per raccogliere pellegrini. Già, pellegrini. Lei è cristiana, cattolica, osservante. E quella via Francigena che passa per Susa è il suo cammino di Santiago, fino al cantiere del Tav. Sono una quarantina di minuti, se non sei un alpinista provetto. Li chiamano i "cattolici per la vita della valle" e pregano là, dove giornali e tivù tante volte hanno mostrano violenza e feriti, dove la montagna s’è piegata alle ruspe: «Iubilate deo, Alleluya», intona Gabriella. E gli altri dietro. A volte dieci. A volte cento. Tutti in cerchio attorno alla statua di San Pio da Pietrelcina, proprio sotto i piloni dell’autostrada. Prima avevano la loro colonna votiva. Poi se l’è inghiottita il cantiere che avanza. «Preghiamo per la Val di Susa, ma anche per un mondo più giusto, dove le persone siano rispettate, aiutate dal potere politico e non umiliate e depredate».
I soldati di corvée a bordo del Lince, in questo piccolo Afghanistan in terra di Barolo, hanno l’ordine di presidiare ogni angolo. Basta che un’ombra s’allunghi lungo il costone del monte, che quelli si mettono in assetto. Binocoli, radio, piantoni. Con i pellegrini, però, c’è imbarazzo. Alcuni militari salutano con la mano, altri no: «Una volta ci siamo persi nei sentieri durante uno scontro», racconta Angela: «Siamo finiti in bocca a un plotone. Finché una donna poliziotto ci ha aiutati. Io l’ho abbracciata, nonostante fosse della polizia. E ho pensato che Cristo, ogni tanto, manda anche a loro un po’ di umanità. C’è diffidenza, ma sono cristiani». La questione non è, però, di fede. È che Stato e cittadini, qui a Susa, hanno il divieto di parlarsi. Poi, fuori, cambiano registro anche gli agenti: «Se ci mandano qui, noi che possiamo farci? Lavoriamo tantissimo, senza un euro di straordinario. E sembriamo noi i nemici». Nemici no, ma divisi da qualcosa di più del filo spinato, quello sì. E sorvegliati da un occhio più attento delle telecamere a circuito chiuso.
A pochi passi c’è il campo della memoria, un minuscolo cimitero di guerra che ormai dista poco dalle fauci del mostro. Ancora qualche metro e appare un villaggio neolitico. Grotte e antri come in un film. Rischia di essere inghiottito dalle ruspe pure quello, ma chissenefrega nel Paese che lascia crollare Pompei. Per i No Tav sarebbe l’ennesimo sfregio alla valle: «Sugli alberi ci avevamo costruito le case di legno, per presidiare il cantiere. I poliziotti ce le hanno abbattute. Resta qualche trave incastrata fra i rami. Ma fu un’esperienza straordinaria. I vecchi mandavano i ragazzi in cima ai castani e insegnavano loro a usare la motosega, a battere i chiodi, a legare gli steccati. Per difendere la Val di Susa c’è stato un passaggio di saperi, di tradizioni», racconta Federico. Poi indica un castagno col tronco grosso come un pilone dell’A32. In tre non si riesce ad abbracciarlo: «È stato piantato 270 anni fa, prima della Rivoluzione francese. Ce n’era un intero bosco, serviva per fermare le frane. Se noi tagliamo un ramo secco finiamo nei guai con la Forestale, loro hanno abbattuto centinaia di alberti secolari». E il problema si riproporrà a breve proprio con quel castagno. La polizia teme che l’estate sarà calda anche per questo. Ma loro ci sperano ancora. Fra sacro e profano: «Ci sono Cristo e Giacu a proteggere la valle».
DONNE CONTRO
Se segui per Chianocco, dove avrebbe dovuto passare il Tav nel vecchio progetto, sbatti su una baita coperta di edera. Dentro ci passano le giornate tre pensionate. Si chiamano Ermanna Ronca, Lilia Biancodolino e Marina Martin. Per riportare lavoro in valle, si sono comprate pecore e capre. Filano la lana e hanno messo in piedi una scuola di cucito. Fanno maglie e coperte per scaldare i No Tav durante i sit in. Da buone mamme, hanno aperto pure la scuola di cucina e sfamato un milione di persone dal ’91, quando ci fu la prima manifestazione: «Facciamo migliaia di panini in pochissimo tempo, ormai, e ogni euro finisce al movimento. Ognuno paga quanto può. Se hai un euro, costa un euro, altri poi magari te ne lasciano 10 o 20». Ultima trovata è il corso di Tai Chi. Non per moda, «l’arte cinese insegna a restare in piedi per ore senza dolori», spiega Marina che ha cresciuto figli e nipoti a pane e No Tav.
A sei anni, i bimbi sono già in piazza. Quando a Susa è passato il Giro d’Italia c’erano le scorte della polizia. I bambini le hanno viste e hanno cominciato gridare: «No Tav, No Tav, No Tav!». Ai tempi degli scontri di Venaus, invece, le strade furono chiuse e gli scolari obbligati a mostrare i documenti per andare in classe. Così pure le vecchine in visita al camposanto: «Dicono che siamo violenti, ma da noi non parte nemmeno un’oliva. Ci ha viste? Invece una mia amica è stata calpestata, un’altra picchiata», sussurra Ermanna, che ha due protesi alle gambe, ma scala i monti quando c’è da fare un presidio. Lilia, poi, ha lasciato il marito all’ospedale. «Doveva operarsi di tumore, gli ho detto: "Amore, andrà tutto bene, ma io non ci sarò. C’è il presidio No Tav. E noi non possiamo essere da un’altra parte". Era d’accordo anche lui».
Un’altra volta, sotto la neve di dicembre, migliaia di persone si sono messe in fila dal notaio. Volevano comprare un metro quadrato di terra. In Val Susa non vale molto, ma per loro era l’affare della vita. Perché quel puzzle di famiglie, omonimie, comproprietà poteva far saltare l’iter degli espropri. «Lo Stato ha sempre strumenti per batterci», scuotono la testa. «Ma quel giorno ognuno di noi aveva la coscienza di un pellerossa, con la tenda piantata sul suo metro di terra, ad aspettare i sudisti pro Tav».
AIUTO, ETINOMIA
Non son tutti di Susa, però, i veri valsusini. Daniele Forte, per esempio, è un ingegnere di 37 anni. Ha lasciato Torino per salire fin qui. S’è comprato una baita a Rubiano e ci vive con la moglie. Non cercava silenzio, né fiordalisi o scoiattoli: «Sono venuto qui perché c’era il movimento No Tav. Tanti da Torino lo stanno facendo. In questa valle c’è un fenomeno unico in Italia, si sta vivendo una rivoluzione». Una rivoluzione che, da due anni, ha un baricentro. Si chiama Etinomia, da etica ed economia, è un’associazione come le antesignane Habitat e Pro Natura negli anni Novanta. Daniele è il presidente e da mesi riceve mail da mezza Europa. Gruppi, movimenti, associazioni che vogliono importare il modello Susa. E poi si scrive con i giovani turchi di Istanbul, che seguono da tempo i No Tav.
Chi pensa a Etinomia, insomma, come un’azienda, non ha capito bene la musica. «Se cerchi un idraulico in Val Susa, chiami Etinomia. Se ti serve un elettricista, telefoni a Etinomia», spiega Daniele. Qui tutto è No Tav. Quando il barbiere Mario è finito ai domiciliari dopo gli ultimi scontri al cantiere, Etinomia in poche ore ha messo in piedi una catena di solidarietà. E nel negozio di Bussoleno si sono alternati i barbieri di tutta la valle, senza pretendere un euro: «È il superamento del concetto di concorrenza, si può dire che noi siamo il "sì" dentro il "no" di questo movimento. Se lo Stato pensa di fermare questo processo, possiamo dire che ha già perso».
Ogni giorno, Etinomia aiuta qualcuno. I ragazzi sfigurati dall’esplosione di un ordigno bellico. Le famiglie dei bikers morti in strada. Le donne incinte che perdono il lavoro. Un welfare alternativo allo Stato, che unisce migliaia di valsusini. Dal riccone che ha ristrutturato "il fortino" romano, offrendolo gratis per matrimoni, anniversari e feste comandate. Fino a chi deve tirare sull’euro. Così, se di sera non sai che fare, niente discoteca. In Val Susa c’è di sicuro un convegno di Etinomia. E là centinaia di persone che sorridono. Più che sulla pista da ballo.