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 2013  giugno 21 Venerdì calendario

GIOVANNI PALATUCCI SE QUESTO È UN GIUSTO

Ci eravamo illusi di essere diversi, migliori. Italiani brava gente, tutto sommato. Invece adesso scopriamo che anche Giovanni Palatucci, lo «Schindler italiano», era un collaboratore ligio dei nazisti, che non aveva salvato migliaia di ebrei dalla deportazione. Se la denuncia del Centro Primo Levi di New York verrà confermata, potrebbe diventare il colpo più duro alla narrativa nazionale sostenuta per ripulirci la coscienza dagli orrori della seconda guerra mondiale.

Palatucci era nato nel 1909 in provincia di Avellino, e dal 1937 al 1944 era stato funzionario di polizia a Fiume, dove si occupava del censimento degli ebrei. Alla fine del 1944 il colonnello delle SS Kappler lo aveva fatto arrestare e internare a Dachau, dove era morto poco prima della Liberazione.

Dopo la guerra, a partire dal 1952, la sua storia era stata rilanciata dallo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che lo aveva descritto come un difensore degli ebrei. Tra le altre cose, aveva favorito la fuga in Palestina di un nutrito gruppo di perseguitati a bordo della nave Agia Zoni, ne aveva trasferiti molti nel campo di concentramento di Campagna dove poi si erano salvati, aveva distribuito documenti falsi e distrutto gli archivi identificativi di Fiume, per impedire ai nazisti di rintracciare le loro vittime. Tutto questo aveva creato un mito e portato una serie di riconoscimenti: la Medaglia d’oro al merito civile dello Stato italiano, la menzione come «Giusto tra le nazioni» al museo Yad

Vashem, e la proclamazione di martire da parte di Giovanni Paolo II. I numeri non tornavano, però. A Palatucci veniva attribuita la salvezza di circa 5.000 ebrei in una regione, il Carnaro, dove al massimo ne vivevano poco più di 600. L’unica testimone che aveva confermato di essere stata aiutata da lui era una donna, Elena Aschkenasy, che il funzionario aveva ricevuto nel 1940.

Il Centro Primo Levi allora ha avviato delle ricerche, che secondo la direttrice Natalia Indrimi hanno portato a questa conclusione: «Si è trattato di creazione postuma di anime». In sostanza lo zio vescovo di Palatucci aveva avviato l’operazione di riscoperta, per far avere la pensione alla sua famiglia. Poco alla volta però la storia era lievitata, perché faceva comodo un po’ a tutti: alla coscienza degli italiani, ai cattolici, agli stessi ebrei che potevano riconoscere dei giusti anche tra i gentili. Così era nato il mito, che aveva convinto tutti.

Un gruppo di storici ora ha potuto vedere circa 700 documenti originali di Fiume, che non erano stati distrutti, ma erano rimasti nascosti negli archivi jugoslavi. Ne è emerso che Palatucci non era il capo della polizia locale, ma un vice commissario incaricato proprio di compilare le liste, e aveva continuato a fare il suo lavoro anche dopo l’armistizio del 1943, giurando fedeltà alla Repubblica di Salò. La nave Agia Zoni non era partita su sua iniziativa, mentre a Campagna erano stati trasferiti solo una quarantina di ebrei, e due terzi di loro erano finiti ad Auschwitz. Il censimento, poi, dimostra che a Fiume c’erano in tutto 398 ebrei, e 245 furono deportati. Nell’intero Carnaro erano al massimo circa 600, e quindi i numeri sono sicuramente esagerati. Quanto alla fine di Palatucci, Kappler lo fece arrestare perché aveva cercato di passare agli inglesi informazioni sulla città, non perché sospettava che avesse aiutato gli ebrei a fuggire.

Non è la prima volta che questi dubbi emergono, ma stavolta sono finiti sul New York Times , perché il Centro Primo Levi li ha comunicati con una lettera allo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, che aveva inserito una sezione dedicata a Palatucci nella sua mostra «Some Were Neighbors: Collaboration and Complicity in the Holocaust». La sezione ora è stata tolta, e anche lo Yad Vashem sta rivedendo i documenti, per decidere se togliere l’italiano dalle persone riconosciute come giuste. Lo stesso Vaticano è informato e il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, ha detto che uno storico è stato incaricato di riesaminare la questione.

Natalia Indrimi dice che condurre queste ricerche non è stato facile, perché «si tratta comunque di un giovane che fece una fine tragica». La direttrice esecutiva del Centro Primo Levi riconosce che «Palatucci probabilmente si trovava a disagio nella sua mansione, tanto è vero che aveva chiesto otto volte di essere trasferito». Questo però non significa che sia stato un eroe dell’assistenza agli ebrei. Il passaggio dei documenti agli inglesi «probabilmente rientra negli effetti del disfacimento della Repubblica sociale, ma la valutazione dei motivi compete agli psicologi, più che agli storici. Del resto Kappler non aveva motivo di mentire, e se l’arresto di Palatucci fosse stato davvero legato all’aiuto fornito agli ebrei, lo avrebbe detto».

La Indrimi non vuole usare queste informazioni per distruggere il mito degli italiani brava gente, che avevano fermato la mano ai nazisti: «Ognuno», dice, «è libero di credere quello che vuole. La vita intellettuale, però, è una delle colonne del nostro Stato laico, ed è importante che i fatti siano conosciuti».