Alessandro Ursik, La Stampa 21/6/2013, 21 giugno 2013
L’INDONESIA BRUCIA LE SUE FORESTE E IL FUMO SOFFOCA SINGAPORE
Mascherine alla bocca, un grigio uniforme sui grattacieli e il sole che si intravede a fatica. Scene che ricordano Pechino o altre metropoli cinesi dallo smog famigerato, ma che ieri si sono verificate a Singapore, ossia la «Svizzera asiatica» ossessionata dalla pulizia e dall’efficienza. E che ora si trova invece avvolta da una cappa di polveri sottili mai vista prima, per di più neanche per colpa sua: il fumo che la soffoca arriva dalle foreste indonesiane di Sumatra, bruciate per far spazio alle piantagioni.
La qualità dell’aria stava peggiorando da giorni, ma ieri l’indice che misura l’inquinamento è schizzato a una quota da record storico: 371, su una scala che dopo 300 fa scattare l’allarme «pericoloso». In serata è poi sceso a 250, un livello comunque «molto malsano». Il governo ha invitato bambini e anziani a rimanere in casa, e le scuole hanno cancellato le attività all’aperto; 200 istituti nella vicina Malaysia sono stati chiusi. L’aeroporto Changi, regolarmente votato tra i migliori al mondo, ha inanellato ritardi a causa della visibilità ridotta.
Molti dei cinque milioni di residenti si sono barricati con le finestre chiuse. «Oggi lo smog è così pesante che mi sembra di avere una manciata di sabbia in bocca. Sono rimasto in ufficio fino a mezzanotte, pur di non uscire e venire investito dalla nube», racconta Fabio Nave, un italiano che da pochi mesi lavora a Singapore. Niente passeggiata con il cane, niente jogging al parco, ristoranti e negozi che lamentano cali nel giro d’affari, e il timore che i turisti scappino. Le mascherine nelle farmacie sono già introvabili, anche se il governo ha assicurato che esistono scorte per tutti. Il premier Lee Hsien Loong ha però già avvertito: «La crisi potrebbe durare diverse settimane».
Il colpevole è noto: l’enorme Sumatra sta perdendo progressivamente le sue foreste, vittime degli interessi miliardari dell’olio di palma. Piantagioni monocoltura che hanno devastato l’Indonesia negli ultimi vent’anni, con conseguenze sulla fauna (la popolazione degli oranghi è precipitata) e sull’ambiente. Al tradizionale «taglia e brucia» degli agricoltori si sono aggiunti gli incendi dolosi di potenti compagnie senza scrupoli, e i sottostanti strati di torba alimentano fiamme che liberano micidiali gas serra. Questa è la stagione secca, e ogni anno il problema si ripresenta: la chiamano «haze», foschia. Ma mai come adesso; nel 1997, quando la prolungata emergenza portò alla chiusura di scali aerei e danni per 9 miliardi di dollari, il picco raggiunto dall’indice fu 226.
La reazione stizzita dei singaporeani ha indispettito l’Indonesia: «Che la smettano di lagnarsi come bambini», ha detto ieri un ministro, mentre altri fanno notare come molte aziende della città-stato facciano affari con l’olio di palma indonesiano. Ma lo choc è reale: Singapore è un’oasi di aria pulita, pianificazione urbana e coscienza ambientalista nell’Asia che con il boom economico sregolato si sta rovinando i polmoni. La Cina tossisce per le centrali a carbone e le cinture di fabbriche, Bangkok e Giacarta soffocano per i loro ingorghi leggendari, ma Singapore è abituata a considerarsi una spanna sopra i suoi vicini. E ora si ritrova a respirare la loro stessa aria killer.