Michele Brambilla, La Stampa 21/6/2013, 21 giugno 2013
IL CARCERE MODELLO SENZA SUICIDI “SALVATI DAL LAVORO”
«Questo qua l’ha aperto qualche anno fa un mio collega diversamente onesto», mi spiega Adelio Miccoli, fine pena 2029, un tipo di milanesone d’una volta che sembra il personaggio di una canzone di Jannacci. Mi sta mostrando il laboratorio di pelletteria nel quale lavora con una signora che è anche sua compagna nella vita. Anche lei detenuta, nella sezione femminile dello stesso carcere.
Il lettore si chiederà com’è possibile. Ma siamo a Bollate, in quello che è considerato un carcere modello, uno dei pochissimi. Dobbiamo pur raccontare anche le cose che funzionano.
Celle aperte tutto il giorno, detenuti che in gran parte sono occupati a far qualcosa piuttosto che a spegnersi giorno dopo giorno, uomini e donne spesso insieme nelle varie attività di lavoro. Il direttore Massimo Parisi spiega che qui si pratica la «vigilanza 7. dinamica», cioè non c’è bisogno di guardare a vista il detenuto. «Tendiamo a conoscerli il più possibile e a stipulare con loro un patto di responsabilità». Assicura che funziona: «Tenga conto che qui abbiamo 430 agenti di polizia penitenziaria, in media meno che negli altri istituti dove si marca a uomo». Se sgarrano, peggio per loro. Ma finora i numeri sembrano dar ragione alla politica, diciamo così, «illuminata», di chi ha voluto Bollate, nato nel 2001 per cercare di superare vecchie logiche.
I numeri, dicevamo. Qua ci sono 1.180 detenuti (di cui una novantina di donne, nella loro sezione che è ovviamente separata ma fa parte dello stesso complesso). Al novantanove per cento sono persone condannate in via definitiva, e quindi qui per scontare la pena. Diciannove sono ergastolani. Raro caso in Italia, è un carcere senza sovraffollamento: capienza e detenuti coincidono. Le celle sono di tutti i tipi: singole, doppie, triple o cameroni da quattro. I numeri, dicevamo, per ora sono confortanti. Qui non c’è mai stato un suicidio. E nonostante (o forse per) la «vigilanza dinamica», grossi guai non ce ne sono stati. «La vede quella roba lì?», mi dice Miccoli con vocione alla Piero Mazzarella: «Seghe, coltelli, forbici. Qui in laboratorio c’è di tutto, e non è mai successo niente». Eppure questo Miccoli è uno che ha commesso un reato gravissimo.
Certo che in galera si fanno incontri pazzeschi. Si vengono a sapere cose che stando fuori nessuno si potrebbe immaginare. Per esempio la storia dell’uomo che incontro nel laboratorio del vetro: per l’anagrafe carceraria è Tucci Santo, anni 56, fine pena 2026. Cioè ancora tredici anni, che è un tempo che fa paura solo a sentirlo. Ma la cosa incredibile è che quest’uomo è dentro già da quarant’anni: «Sono entrato a sedici anni per un piccolo reato e non sono più uscito». È in carcere che ha combinato quello che gli ha procurato cumuli su cumuli di pena, così che pur senza avere l’ergastolo, starà dentro (anzi, è già stato dentro) più di tanti ergastolani.
Dice che la sua vicenda è esemplare di come il carcere possa rovinare o raddrizzare, a seconda di com’è: «Io mi sono lasciato coinvolgere dalla logica brutale del carcere, e ho peggiorato la mia situazione. Fino a quando, qui a Bollate, ho trovato una realtà diversa. Qui non esiste un detenuto che, se ha un problema, non ha una porta dove bussare. Da otto anni lavoro il vetro con la cooperativa “Il passo”, ho avuto permessi per uscire, fatto mostre nelle scuole, tenuto corsi per insegnare questo mestiere. Sa di quanto s’è accresciuta la mia autostima? Io sono evaso tante volte in passato, ma da quando lavoro non mi viene neanche in mente di rifarlo. Penso solo a quante persone tradirei... Il lavoro non è un passare il tempo, è un dare la dignità alla sofferenza».
Il lavoro è la grande scommessa e, anche su questo i numeri sono confortanti. «Qua ci sono 160 detenuti in articolo 21, cioè in permesso di lavoro all’esterno del carcere», dice il direttore. «La gente pensa: poi scappano. Ma qui abbiamo avuto un evaso negli ultimi due anni, 5-6 negli ultimi dieci. Tutti articoli 21: e tutti ripresi». Chiedo ingenuamente se hanno il famoso braccialetto elettronico, che dev’essere una specie di leggenda metropolitana perché girando per le carceri non se ne trova traccia: «Nessun braccialetto. Noi sappiamo che è nell’interesse del detenuto non tradire la fiducia. Noi abbiamo, a parte gli articoli 21, 330 detenuti che usufruiscono di permessi premio: vanno a casa anche per periodi di quindici giorni, per un massimo di 45 giorni all’anno. Sanno che sgarrano salta tutto il sistema che abbiamo cercato di mettere insieme».
Ad esempio l’area colloqui, che non è come si vede nei film, ma è - almeno da maggio a ottobre - un giardino con tavolini, ombrelloni e giochi per i bambini. Ad esempio il teatro - qui dentro si fanno spettacoli a pagamento -, ad esempio il laboratorio musicale, o ad esempio il catering con i detenuti che vanno in giro a portar da mangiare. O, ancora, lo sportello giuridico: avvocati e magistrati in pensione vengono qui a fare assistenza gratuita ai detenuti, perché anche quando si è dentro c’è sempre bisogno. E i due giornali che vengono realizzati qui all’interno, «Carte Bollate» e «Salute inGrata».
Troppa grazia per chi ha ucciso, rapito, rubato? «Guardi», mi dice Simona Gallo, l’educatrice che mi accompagna nel giro all’interno del carcere, «i detenuti non chiedono prigioni che sembrino alberghi a quattro stelle. Chiedono di dare un senso alla loro esperienza e alla loro vita, chiedono di poter cambiare». Dice che chi è fuori fatica a capire che in carcere si possa incontrare un’umanità insospettabile: «Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho ricoperto diversi incarichi, ho fatto anche l’avvocato e ho accettato questo posto quasi per caso. Poi mi sono accorta che la mattina ero contenta di andare a lavorare. Perché quello che ti dà lo sguardo di una persona che hai aiutato è impagabile».
Ma non è tutto così, non è tutto un bel quadretto. «Ci sono carceri terribili, provi ad andare a Poggioreale», mi dice uno dei detenuti-redattori di «Carte Bollate». Un suo collega è molto sincero: «E non è colpa solo delle istituzioni. Ci sono molti detenuti che non vogliono cambiare, che vogliono che il carcere sia un terreno di guerra». Cambiare, recuperare - o se si vuole usare una parola grossa, redimere - è difficile. E spesso si va incontro a delusioni.
E tuttavia un viaggio nel pianeta delle carceri ci dice che sperare si può, anzi si deve. Il problema più grosso non è il sovraffollamento ma la condanna all’accidia, che può diventare ira. Anche Bollate - al cui interno c’è un’area industriale - conferma che i detenuti che in carcere lavorano hanno poi una recidiva molto bassa, vicina allo zero. Eppure sono pochissimi, su 66.000 detenuti in Italia, quelli che lavorano. Meno di un migliaio all’interno dei carceri, e ancora meno con il permesso di lavoro esterno. Perché? Forse per il conservatorismo di un mondo che non vuole cambiare, e per il disinteresse di un altro mondo - quello «fuori» - il quale si illude che non sia un problema suo.