Luca Ricolfi, La Stampa 21/6/2013, 21 giugno 2013
INVINCIBILI NELL’ARTE DI NON SCEGLIERE
Sul governo Letta le valutazioni possono essere molto diverse. Molti elettori, ad esempio, hanno apprezzato il mero fatto che - finalmente - l’Italia fosse riuscita a darsi un governo, dopo due mesi di balletti inconcludenti. Altri ne apprezzano lo stile pragmatico, l’attitudine al dialogo, la politica dei piccoli passi. Altri ancora, invece, sono profondamente delusi: specie le basi del Pdl e del Pd non hanno gradito quelli che possono apparire elementi di continuità con il governo Monti, come la deferenza verso l’Europa e un certo attendismo sulle scelte cruciali.
Ma come stanno le cose? A me pare che, a due mesi dal suo insediamento, il governo Letta abbia già mostrato piuttosto chiaramente il suo volto. Nato dalla assenza di alternative, esso aveva di fronte due strade. Prima strada: governare cercando il massimo comun divisore fra le idee della destra e della sinistra, ovvero varare il maggior numero di provvedimenti capaci di mettere d’accordo destra e sinistra (a proposito: il massimo comun divisore fra 8 e 6 è 2).
Seconda strada: governare cercando il minimo comune multiplo fra le idee della destra e della sinistra, ovvero tentare di metterne in atto le idee più incisive (a proposito: il minimo comune multiplo fra 8 e 6 è 24).
Fra le due strade il nuovo governo ha scelto molto nettamente la prima, che poi è la cifra fondamentale di tutti i governi della seconda Repubblica, ivi compreso il governo Monti, specie nella parte finale della sua parabola. Governo del «fare», indubbiamente, ma inteso come fare pochino, rimandando al futuro tutte le scelte cruciali, quelle difficili e che possono creare conflitti. Prima del voto tutte le maggiori forze politiche in campo avevano dichiarato di saper come «reperire» svariati miliardi di «risorse», chi per abbattere l’Imu (più o meno integralmente), chi per rilanciare gli investimenti pubblici, chi addirittura per restituire l’Imu dell’anno scorso. Ora che si ritrovano tutte insieme nel medesimo governo, ora che appaiono miracolosamente d’accordo su alcune priorità (ad esempio bloccare l’aumento del l’Iva), ora che non possono accusare l’avversario politico di intralciare l’azione del governo, improvvisamente scoprono di non saper più come trovare quelle medesime risorse che in campagna elettorale consideravano a portata di mano. Con 400 miliardi di spesa pubblica extrapensionistica e 150 miliardi di evasione fiscale, i nostri governanti ci dicono candidamente di non saper proprio come fare a recuperarne anche solo 4, quanti sarebbero necessari per evitare l’aumento dell’Iva.
Ed ecco allora la soluzione: chiedere all’Europa di fare più deficit, l’unico vero punto di contatto importante fra destra e sinistra. Era chiaro fin dai programmi elettorali di Pd e Pdl, è chiaro da come si stanno muovendo sullo scenario europeo i loro leader. L’unica vera differenza è che i dirigenti di centro-sinistra vogliono salvare le apparenze, negoziando con le autorità europee il permesso di sforare su determinate voci (investimenti pubblici, pagamenti della Pubblica Amministrazione), mentre Berlusconi ha meno peli sulla lingua e ogni tanto si lascia scappare quello che molti pensano, anche a sinistra: e cioè che un po’ di deficit fa bene, certo non lo si può annunciare spudoratamente e programmaticamente, e però sì, lo sappiamo perfettamente che l’anno prossimo, a conti fatti, ci troveremo con diversi decimali di deficit pubblico in più. Di qui un permanente navigare a vista, con molta retorica ma senza grandi progetti, con un campionario di buone intenzioni ma senza nessuna scelta forte. Si poteva, si potrebbe fare diverso? Verrebbe da rispondere: forse no, i nostri politici sono quello che sono, e dopotutto siamo italiani.
Ma, forse, si dovrebbe anche aggiungere: se non ora quando?
Detto in altre parole: a che serve un governo di Grosse Koalition, con destra e sinistra unite nel medesimo esecutivo, se non a fare, finalmente, quelle scelte difficili che da almeno venti anni vengono rimandate? Non è questo che ha fatto la Germania quando era lei il «malato d’Europa»? E non è forse per non aver fatto quelle scelte che ora il grande malato d’Europa siamo proprio noi, con la nostra attitudine a nascondere la testa sotto la sabbia, a rimandare le decisioni, a conservare tutto il conservabile? Perché continuiamo a cercare le cause dei nostri mali solo all’infuori di noi, nella Merkel, nell’Europa, nella speculazione? Perché la politica non vuole riconoscere che è la sua incapacità di decidere che ha portato il Paese al disastro? Perché non vogliamo capire che il nostro futuro dipende innanzitutto da noi stessi?
La risposta a questi dubbi, purtroppo, pare essere una sola. L’unica arte in cui i nostri politici non hanno rivali è l’arte del non governo. Neppure in un momento come questo, in cui la principale forza di opposizione, il movimento di Beppe Grillo, si sta autodistruggendo, destra e sinistra trovano in sé stesse la forza per sposare fino in fondo le proprie idee più audaci, facendo quello che una Grosse Koalition dovrebbe e potrebbe fare: aggredire sia l’evasione fiscale sia gli sprechi della Pubblica amministrazione, in una logica di «minimo comune multiplo», che dalla destra e dalla sinistra cerca di estrarre il meglio di ciascuna, anziché il meno peggio di entrambe.
Il fatto che, di fronte all’esigenza di scovare pochi miliardi per contenere le aliquote Imu o Iva i nostri governanti ci confessino che non hanno la minima idea di dove e come trovare i soldi, e che se li trovassero si tratterebbe di interventi «di estrema severità», ci dà la piena misura di quanto volino basso, di quanto poche cose pensino di poter fare anche in futuro, e tutto sommato anche di quanto poco siano attrezzati per guidare l’Italia. Una politica seria, dopo decenni di analisi, di studi, di ricerche, di denunce sull’evasione e sugli sprechi dovrebbe avere i cassetti pieni di soluzioni, di piani dettagliati, di progetti operativi, e non si farebbe prendere alla sprovvista appena ha l’opportunità di governare.
Peccato, perché questa era un’occasione straordinaria. Probabilmente irripetibile, e quasi certamente l’ultima.