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 2013  giugno 20 Giovedì calendario

I BUCHI NERI FISCALI CHE NESSUN PAESE VUOLE SMANTELLARE

Quando metà del pianeta è alla disperata ricerca di quattrini, si prova a recuperarli nell’altra metà, quella dove trovano rifugio masse di capitali equivalenti a un quinto del Pil globale. Nasce da questa fame di denaro la nuova offensiva del G8 nei confronti dei paradisi fiscali, annunciata al vertice irlandese. I Grandi hanno messo nero su bianco una sorta di decalogo per cercare di mettere alle corde l’economia offshore, prima che sia lei a mettere in ginocchio il mondo.
L’URGENZA C’È: secondo l’Ocse, ogni anno l’Europa perde 1.000 miliardi di tasse a causa dei paradisi. E secondo l’ex capo economista di McKinsey, James Henry, nel 2012 il totale dei capitali offshore ammontava a 21 mila miliardi di dollari di soli depositi, più altri 10 mila miliardi in beni vari. Già questa cifra, equivalente al doppio del Pil Usa più quello del Giappone, sarebbe sufficiente a chiarire la mole degli interessi in gioco. Ma è quando si va a verificare chi muove questa montagna di soldi, che arriva il bello. I principali operatori del mondo parallelo dei paradisi risultano essere, infatti, le maggiori banche del mondo: si tratta di ben 10 mila istituti di credito, tra cui 320 italiani.
Tra i migliori clienti dei paradisi ci sono anche, ovviamente, le grandi multinazionali. Apple, Starbucks, Google, e altre, sostengono di limitarsi a utilizzare le leggi vigenti nei diversi paesi per effettuare ‘’ottimizzazione fiscale’’. Apple, in questo modo, è riuscita a crearsi una personalissima pressione fiscale pari allo 0,1 per cento: paragonato al 53 per cento in vigore oggi in Italia, un’ottimizzazione niente male. Le grandi compagnie, si sa, dettano legge e soprattutto dettano le leggi: l’ad di Apple Tim Cook, convocato dal senato americano per elusione fiscale da 44 miliardi di dollari, ha ricordato agli sbigottiti senatori che “noi applichiamo le leggi che voi scrivete’’. Poi ha consegnato loro una “memoria”: i suoi consigli su come riformare il fisco americano. Se le multinazionali giocano sul filo dei buchi legislativi, nei paradisi s’infilano però anche altri soggetti. Il crimine organizzato, certo; ma anche il comune mortale che vuole far scomparire agli occhi del fisco il suo personale tesoretto. Qui non si tratta più di ripulire capitali sporchi ma, al contrario, di annerire soldi guadagnati onestamente per sottrarli alle tasse. Il mercato, da questo punto di vista, fornisce mille opportunità. Su Internet si fanno concorrenza centinaia di siti che offrono “come farsi una società offshore con un click’’, a prezzi stracciati: meno di 1500 euro. Se poi volete esagerare, con 5 mila vi fate addirittura la vostra personale banca offshore. Ma la nuova moda è quella dei trust. In Italia è decollata quando le nuove regole hanno in pratica abolito il segreto bancario. E dunque, i soldi si tolgono dal conto corrente e si affidano a notai e avvocati che, con un paio di firme e poche migliaia di euro di costo, li trasferiscono a Samoa, Seychelles, Hong Kong, incardinandoli su un paio di limited e blindandoli per sempre. E se gli stessi soldi si volessero poi utilizzare a Roma, Milano, Parigi? Nessun problema.
COL TRUST SI APRE un conto online presso una banca internazionale, che fornisce un bancomat anonimo, con cui – alla faccia della stretta sull’uso del contante – è possibile ritirare fino a 2000 euro al giorno, senza lasciare traccia. Una stretta a questo stato di cose potrebbe scaturire, più che dalle volenterose dichiarazioni dei Grandi, dalla quarta direttiva sull’antiriciclaggio varata dalla commissione Ue nel febbraio scorso, ora in discussione nei vari paesi. Tra le diverse misure, prevede la guerra totale ai trust, che vorrebbe costretti a dichiarare fiduciari, titolari, beneficiari, risalendo tutta la catena delle limited che li nascondono, fino al reale proprietario. Sarebbe una rivoluzione, al punto che, secondo gli stessi addetti ai lavori, è molto difficile che la direttiva sia approvata alla lettera.
NESSUN PAESE è vergine: Londra, la patria del Cameron che tuona contro i paradisi, è la capitale mondiale del riciclaggio e governa su 20 rinomate location offshore; gli Usa di Obama, che combatte la Svizzera e le sue banche troppo ospitali con i super evasori statunitensi, hanno in casa il Delaware. E l’Irlanda che ha ospitato il G8 è la stessa che consente a Apple di pagare lo 0,1 per cento. Dunque, prima di arrovellarsi su cosa fare a livello mondiale, non sarebbe male se ogni paese iniziasse a fare qualcosa al proprio interno. L’Italia, per una volta, ne aveva fatta una giusta: dopo anni di chiacchiere, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino aveva deciso di affrontare il problema del riciclaggio e autoriciclaggio. Pertanto, a gennaio, aveva insediato una commissione, guidata dal procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, affiancato da un pool di super esperti, provenienti da Bankitalia Agenzia delle Entrate, Gdf, Antimafia, ecc. Tre mesi di lavoro, audizioni, approfondimenti. Ne è scaturita una proposta di legge, presentata il 23 aprile. Col nuovo governo, la commissione e la proposta sono finite in un cassetto e dimenticate. Talmente dimenticate che Enrico Letta, nei giorni scorsi, ha deciso di ricominciare daccapo: insediando una nuova commissione, con lo stesso scopo ma con esperti diversi. Del resto, si sa come vanno certe cose: se non sai come risolvere un problema fai una commissione, se non vuoi risolverlo fanne due.