Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 19/6/2013, 19 giugno 2013
“VENGA IN AFGHANISTAN” FINI: “PARLA DA SOLDATO”
Gentile Direttore, faccio riferimento all’articolo a firma del dottor Massimo Fini, pubblicato sul suo giornale in data 11 giugno, dal titolo “Quella guerra sporca, senza eroi”, nel quale l’autore cita la mia persona formulando apprezzamenti “poco lusinghieri”. Al riguardo, mi consenta di dire che non conosco personalmente il giornalista né mi risulta che sia mai stato in Afghanistan, Paese del quale parla, ostentando una sicura e approfondita conoscenza che, invece, pare più “acquisita per interposta persona” e caratterizzata da alcune visioni distorte di fatti, circostanze e accadimenti. Colgo l’occasione che mi offre pubblicando la mia lettera, pertanto, per invitare il dottor Fini qui in Afghanistan, durante il periodo della mia permanenza (tutto l’anno in corso), per consentirgli di effettuare approfondimenti e riscontri che le vicende di questo Paese meritano, evitando la tentazione di affermazioni e commenti che, a una lettura distratta, possono apparire suggestivi, ma rischiano di rivelarsi sintomi di una faziosa propaganda contro le Istituzioni.
Il capo di Stato Maggiore generale Giorgio Battisti
Nell’articolo di cui si duole il generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti, attualmente Capo di Stato Maggiore della Missione Isaf in Afghanistan, scrivevo, in polemica a un’intervista che lo stesso Battisti aveva rilasciato a Gian Micalessin del Giornale (“Non abbiamo fallito. La gente è con noi”) “...è quello stesso Battisti che, sia detto di passata, quando nel 2003 fu mandato a guidare la base di Khost, sostituendo gli americani, si affrettò ad accordarsi col comandante locale dei Talebani, Pacha Khan, per una non belligeranza. Riprendevo, appunto ‘di passata’, quanto avevo scritto, in modo più articolato nel libro Il Mullah Omar del 2011: “Quando nell’aprile 2003 il primo gruppo di alpini della Taurinense si istalla nella base di Khost, dando il cambio agli americani, il brigadiere generale Giorgio Battisti, che ne è a capo, capisce subito che aria tira. E, attraverso un intermediario italiano di una Ong che opera nella zona, chiede un incontro col comandante talebano del luogo (che è Pacha Khan). Al singolare rendez-vous Battisti ovviamente non va di persona, ma manda un suo ufficiale. L’accordo è subito trovato: gli italiani faranno solo finta di controllare la zona e i Talebani li lasceranno tranquilli, limitandosi a qualche azione dimostrativa per non insospettire gli alleati anglosassoni”.
Quale è la mia fonte? Lo stesso intermediario italiano, leader di una prestigiosa Ong, che ha combinato l’incontro.
Nel novembre del 2004 il colonnello dei marines Tim Grattan dirà con brutale franchezza: “Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”.
Il 20 agosto 2008 i francesi sono vittime di un’imboscata talebana nel distretto di Sorobi controllato fino a poco tempo prima dagli italiani. I caduti francesi sono dieci, i feriti 21. Scoppia una dura polemica con i cugini transalpini che ci accusano di non averli avvertiti che pagavamo i Talebani perché ci lasciassero in pace. E poiché, in effetti, fino ad allora quella zona era stata tranquilla i militari francesi si erano mossi senza prendere le necessarie precauzioni. Un alto ufficiale della Nato, chiedendo l’anonimato, dichiarerà al Times: “Si può anche pagare, ma è una follia non avvertire i tuoi alleati”. Poche settimane dopo l’ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, elevò una formale protesta al nostro governo, presieduto in quel momento da Berlusconi, per l’atteggiamento tenuto dagli italiani, a Sorobi e altrove. “La gente è con noi” dichiara il generale Battisti. Ah sì? Il 26 settembre 2006 tre Puma che stanno attraversando il villaggio di Chahar Ad Yab per andare a dar manforte alla polizia locale, vengono colpiti dall’esplosione di un ordigno nascosto in un canale di scolo. Uno dei Puma, preso in pieno, si cappotta facendo schizzar fuori gli occupanti. Uno dei militari, il caporalmaggiore Giorgio Langella, muore sul colpo. È steso a terra insieme ad altri due commilitoni feriti, mentre poco più in là si dibatte una soldatessa, Pamela Rendina. Dalle case del villaggio escono decine di persone e circondano i caduti che perdono sangue dalle ferite. Nessuno li aiuta. Al contrario, la folla canta, balla, urla di gioia, sghignazza, fa oggetto di scherno i militari. Una scena orribile. Ma che fa piazza pulita della retorica sugli “italiani brava gente” amati da tutti.
Capisco il generale Battisti. Capisco che un comandante ha il dovere di tutelare i suoi uomini, di motivarli e di cercare di dare un senso a una missione che non ne ha. È un soldato e fa il suo mestiere di soldato. Ma la verità è che gli italiani non sono visti in modo diverso dagli altri. Per gli afghani, o quantomeno per la maggioranza degli afghani, sono degli stranieri che occupano arbitrariamente, e con la violenza delle armi, il loro Paese, come gli altri. E sono odiati esattamente come tutti gli altri. Solo un gradino sotto gli americani che sono i più odiati di tutti.
Massimo Fini