Leopoldo Fabiani, la Repubblica 20/6/2013, 20 giugno 2013
LA MATEMATICA DELLA PAURA
«Ho scritto questo libro — dice Paolo Legrenzi — perché oggi investire bene i propri risparmi è molto più decisivo che in passato. Quando i redditi crescevano ogni anno, sbagliare un investimento era tutto sommato poco importante. Ora che andiamo verso un periodo di redditi sempre più bassi, aumenta la quota di ricchezza dovuta ai risparmi, che vanno gestiti con grande saggezza. Ma farlo, per come è fatta la nostra testa, è molto difficile». Legrenzi è uno psicologo cognitivo che con il tempo ha dedicato sempre maggiore attenzione all’economia. Più precisamente a come funziona la mente quando si tratta di operare scelte in campo finanziario. Oggi dirige il Laboratorio di economia sperimentale nato da una partnership tra l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Swiss Global Asset Management.
Attraverso ricordi d’infanzia, brani letterari, giochi matematici, il suo saggio appena uscito dal Mulino, Perché gestiamo male i nostri risparmi (pagg. 162, euro 12), vuole spiegare esattamente questo: i meccanismi del cervello umano non sono adatti alla gestione previdente dei risparmi. Sentimenti ed emozioni (come la paura o il dolore), utilissimi in altri campi d’azione (e che hanno portato a potenti vantaggi evolutivi per la nostra specie), quando ci sono i soldi in ballo diventano paralizzanti. Dunque, sostiene Legrenzi, una buona “educazione finanziaria” non consiste tanto nell’apprendere una serie di cognizioni tecniche, ma piuttosto nel capire come lavora la nostra mente, quali “distorsioni cognitive” produce, e come è possibile correggerle.
Lei scrive che il risparmio è il regno delle distorsioni e delle illusioni cognitive. Perché?
«Mettiamola così. Da quando l’uomo esiste ha sempre cercato di ridurre il ruolo che nella vita giocano fattori come il caso o l’incertezza. Nelle società antiche, questa funzione spettava a sciamani, indovini, oracoli, aruspici. Abbiamo fatto parecchi progressi, per esempio con le assicurazioni, strumento studiato per ridurre l’impatto di eventi naturali disastrosi, e soprattutto misurato l’incertezza, trasformandola in rischio calcolato. L’uomo, che in tanti frangenti tende a sottostimare l’incerto, in campo finanziario vorrebbe eliminarlo del tutto».
Ma caso e incertezza non si possono abolire.
«Naturalmente no. E soprattutto, abbiamo introdotto forme di incertezza nuove e artificiali. Una di queste sono proprio i mercati finanziari, di cui è impossibile prevedere gli andamenti futuri. Ecco un bel paradosso: il risparmiatore è uno che tenta di sfuggire all’incertezza del futuro, e per farlo si affida a qualcosa di incerto».
Quando dobbiamo decidere del destino dei nostri soldi agiamo in preda all’emotività invece che secondo razionalità?
«Un passo avanti decisivo ce lo ha fatto fare Daniel Kanehman, quando ha dimostrato l’asimmetria tra perdite e guadagni. Le prime provocano un dolore che è molto superiore alla gioia che viene dai secondi. Per questa scoperta ha vinto il Nobel per l’Economia nel 2002. E oggi in molte università si insegna l’Economia comportamentale, che tiene conto delle scelte derivate da queste emozioni, e si basa molto meno sulla teoria dell’individuo razionale che decide unicamente in base al calcolo di convenienza».
Quali sono le conseguenze pratiche delle scoperte di Kanehman?
«Abbiamo finalmente capito che quando ci occupiamo di risparmi, il primo obiettivo è cercare di evitare le perdite, più che guadagnare.
Ma anche qui abbiamo conseguenze paradossali: molte persone investono in titoli di stato “sicuri”, americani o tedeschi, che hanno redimenti reali (al netto dell’inflazione) negativi. Cioè, per evitare il rischio di perdite maggiori, si accetta una perdita sicura».
Oltre al “dolore per la perdita” un ruolo molto importante è giocato dalla paura.
«Un’emozione importantissima nella nostra storia evolutiva. Ci
ha aiutato e ci aiuta a stare lontano dai pericoli, ci mette in guardia da errori che potrebbero essersi fatali. Ma nel campo che stiamo trattando, invece, è proprio la paura che ci fa sbagliare».
Come?
«Per esempio tiene i risparmiatori lontano dai mercati azionari quando le quotazioni scendono, invece quello è un momento pieno di buone occasioni, e sarebbe opportuno comprare. Dovremmo invece avere paura quando le azioni salgono, ed è il momento di vendere. Proprio allora, al contrario, tutti corrono a comprare. E, si badi bene, solo nel campo della finanza facciamo così. Negli altri casi, se i prezzi dei vestiti o dei telefonini scendono, acquistiamo più volentieri».
C’è un modo per difendersi dai nostri errori cognitivi?
«Dovremmo accettare l’idea di affidare i nostri soldi ai gestori professionisti. Tra l’altro noi italiani in questo siamo molto più diffidenti degli altri popoli. Abbiamo un patrimonio di novemila miliardi. Ben due terzi sono immobili, case. Dei tremila miliardi rimanenti solo 1.200 sono gestiti, tutto il resto è fai da te».
Perché siamo così riluttanti di fronte ai consigli degli esperti?
«La questione fondamentale è che la diversificazione dell’investimento, cioè quello che sarebbe giusto fare, è una nozione controintuitiva. Va cioè contro il nostro istinto e la nostra esperienza in tutti gli altri campi. Esempio: se lei mi chiede un consiglio su un ristorante di pesce a Venezia, io le indico un locale dove sono andato più volte e mi sono sempre trovato bene. Mi prenderebbe per pazzo se le dicessi: li provi un po’ tutti e alla fine vedrà che sono più quelli buoni che quelli cattivi. Eppure è proprio così che agisce un buon consulente finanziario. Ripartisce il rischio e investe i fondi che gestisce in tanti settori economici e luoghi diversi. Questi però sono perfettamente sconosciuti al risparmiatore, che ne diffida, perché vorrebbe ricorrere solo a strumenti “noti” e vicini”, magari titoli di stato italiani. Concentrando tutta la scommessa su un unico tavolo però si rischia molto di più».
Il gestore professionista agisce meglio perché i soldi non sono suoi ed è meno coinvolto emotivamente?
«L’atteggiamento giusto nei confronti dei miei risparmi investiti, dovrebbe essere proprio questo: dimenticarmene, lasciarli dove sono incurante degli alti e bassi dei mercati, e fidarmi di chi me li amministra. Ma avere tanto distacco verso i propri soldi va contro la nostra natura. La comprensione di questi meccanismi sarà fondamentale nei prossimi decenni».
Come?
«Se ne parla molto, ma è ancora drammaticamente sottostimato quanto saranno più poveri i nostri figli rispetto a noi. Per questo è decisivo che imparino ad amministrare bene quella parte di ricchezza che viene dal risparmio. Poi c’è da dire che nel nostro Paese la ricchezza, quei novemila miliardi, sono distribuiti in modo molto iniquo. Troppo è in mano a troppo pochi. Siamo di fronte a una disuguaglianza inaccettabile. Se va avanti così arriveremo a forme di forte conflitto sociale. Ma questo è tutt’altro discorso».