Gianandrea Gaiani, Libero 20/6/2013, 20 giugno 2013
TREMILA MORTI PER REGALARE KABUL AI TALEBANI
Neppure 24 ore le felicitazioni per la notizia che le truppe afghane stanno assumendo il controllo dell’intero Paese è calato il gelo tra il presidente Hamid Karzai e gli statunitensi. I rapporti tra l’amministrazione Obama e il presidente afghano non sono mai stati idilliaci, specie dopo che Obama sostenne il rivale Abdullah Abdullah alle ultime elezioni presidenziali ma ora la situazione sembra precipitare. Dichiarando che le forze militari nazionali assumeranno il controllo dell’intero territorio nazionale relegando ai militari alleati compiti di supporto e addestramento, Karzai aveva anche annunciato l’avvio di negoziati con i talebani presso il loro ufficio di rappresentanza in Qatar. «Intendo inviare una delegazione dell’Alto Consiglio per la pace a Doha per intavolare con loro un negoziato» aveva detto Karzai ma quando ha saputo che in Qatar gli Stati Uniti trattano direttamente con i talebani il presidente afghano ha reagito duramente annunciando la sospensione dei colloqui con Washington circa la futura presenza delle truppe statunitensi (e alleate) a Kabul. Il presidente contesta il ruolo di «Paesi stranieri » dietro l’istituzione dell’ufficio dei talebani in Qatar del quale non apprezza il nome, «rappresentanza dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan» che si riferisce a uno stato inesistente. Karzai ha dichiarato che non si unirà a trattative di pace se queste non avverranno in un processo «guidato dagli stessi afghani» e teme che Obama si accordi con i talebani alle spalle sue e del suo governo.
Uno scenario non certo inverosimile considerata l’ambiguità che ha sempre caratterizzato l’attuale amministrazione americana nel conflitto. La parola «transizione» da un lato sancisce un ritiro degli alleati che lascia a truppe afghane troppo deboli il peso del confronto con i talebani e dall’altro nasconde una sconfitta generata proprio da Obama che nel 2010 annunciò l’invio di rinforzi e al tempo stesso il ritiro che sarebbe iniziato l’anno successivo.
Lo stesso generale Joseph Dunford, comandante delle forze alleate in Afghanistan, ha sottolineato nei giorni scorsi che «i progressi fatti in Afghanistan sulla strada della democrazia possono essere messi in pericolo dalla fine delle operazioni di combattimento delle truppe internazionali» perché il livello raggiunto da esercito e polizia afghane «non è sostenibile » senza il continuo aiuto degli alleati.
Da Berlino, Obama ha difeso la decisione di avviare negoziati diretti con i talebani. «Continuiamo a ritenere che serva un binario parallelo per cercare almeno di guardare alla prospettiva di una sorta di riconciliazione » ha detto Obama ma è paradossale che Washington sia pronta a lasciare gli afghani a combattere da soli i talebani ma non a lasciarli negoziare senza interferenze. Il ruolo preminente degli Stati Uniti in queste trattative è apparso ancor più chiaro nel pomeriggio di ieri quando Mohammed Naeem, portavoce dei talebani, ha confermato che oggi a Doha ci sarà un colloquio preliminare con rappresentanti degli Stati Uniti ma non ci sarà alcun incontro con rappresentanti del governo di Kabul.
Di fatto il negoziato punta a riportare i talebani a condividere il potere a Kabul, unica arma di scambio che i jihadisti possono offrire in cambio della cessazione delle ostilità, anche se potrebbero solo puntare a guadagnare tempo in attesa della partenza del grosso delle truppe Nato per poi marciare in armi su Kabul. Pur negoziando, i talebani non hanno certo smesso di ammazzare americani. Quattro soldati sono stati uccisi ieri da razzi lanciati dentro la base di Bagram. Dopo 12 anni di guerra costati finora 3.400 morti agli alleati e oltre 50 mila afghani Washington tratta sottobanco per far tornare i talebani al governo. Una strategia obamiana di sostegno ai regimi islamici e che sembra puntare a lasciare il problema del jihadismo afghano in eredità ai Paesi vicini tra i quali vi sono Cina e Russia. Di certo però il braccio di ferro tra Obama e Karzai e l’ambiguità della politica statunitense imporrebbero a italiani ed europei di chiedersi per quale motivo restiamo in Afghanistan e soprattutto in base a quali interessi nazionali.