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 2013  giugno 20 Giovedì calendario

MA LE PROTESTE NON HANNO FONDAMENTO

Il comunicato della Corte costituzionale che spiega in sintesi l’infondatezza del conflitto sollevato dal Governo Berlusconi contro il Tribunale di Milano, conferma quanto era agevolmente deducibile dai precedenti della giurisprudenza costituzionale. Non hanno quindi fondamento alcuno le scandalizzate dichiarazioni di alcuni collaboratori dell’ex Presidente del Consiglio.
Proviamo allora a spiegare come stanno le cose. Il codice di procedura penale prevede in generale – a tutela del diritto di difesa – che se l’imputato non si presenta ad una udienza «per assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento», il giudice rinvia il processo ad altra udienza, peraltro dopo aver valutato l’effettiva esistenza di queste situazioni.
Nei vari recenti tentativi di privilegiare nei processi penali i vertici del governo al di là di quanto previsto nelle disposizioni costituzionali, si è tentato anche di estendere i casi di impedimento a comparire in udienza dei componenti dei governi e renderli insindacabili, con il risultato di allungare la durata dei relativi processi. In particolare questo era evidente nella legge n. 51 del 2010, che non solo estendeva moltissimo i casi nei quali il presidente del Consiglio ed i ministri avrebbero potuto opporre il loro legittimo impedimento, ma toglieva al giudice competente ogni potere valutativo sulla loro effettiva sussistenza e giustificabilità.
Proprio per l’evidente lesione al principio di eguaglianza e per la compressione dei poteri della magistratura che ne sarebbero derivati, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 23 del 2011 ha però dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni di questa legge, affermando in generale che il pieno rispetto delle funzioni governative non può comportare la sottrazione «al giudice, in relazione alle specifiche ipotesi di impedimento del titolare di funzioni di governo, i poteri di valutazione dell’impedimento addotto» (ed anche le disposizioni allora fatte salve dalla Corte, sono state – come ben noto – successivamente abrogate da un referendum svoltosi nel giugno 2011).
In occasione della sent. n. 23, la Corte ha inoltre chiarito che in casi del genere i valori da bilanciare sono il rispetto della funzionalità del governo, ma anche l’interesse al completamento dei processi: a tal fine occorre che, in spirito di leale collaborazione, i soggetti coinvolti coordinino i «rispettivi calendari», con un giudice che definisce il calendario delle udienze «tenendo conto degli impegni del presidente del Consiglio dei ministri riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo e in concreto assolutamente indifferibili» e con un presidente del Consiglio che programma i propri impegni «tenendo conto, nel rispetto della funzione giurisdizionale, dell’interesse alla speditezza del processo che lo riguarda e riservando a tale scopo spazio adeguato nella propria agenda».
Ma nella specifica vicenda ora giudicata, sorta durante i lavori di elaborazione dell’ infelice legge n. 51, il governo appariva ispirato proprio ai principi che sono stati dichiarati incostituzionali due anni fa: un calendario, pur faticosamente concordato fra giudice ed imputato, viene improvvisamente modificato, a distanza di pochi giorni dall’udienza fissata, dal presidente del Consiglio tramite la mera indizione di un Consiglio dei ministri, senza particolari necessità od urgenze istituzionali. Dinanzi alla conseguente decisione del tribunale di Milano di rigettare la richiesta di rinvio, il governo solleva il conflitto dinanzi alla Corte, negando che il tribunale possa sindacare le «ragioni politiche sottese al rinvio di una riunione del Consiglio dei ministri». Ma quando si arriva alla Corte Costituzionale, la sentenza n. 23 aveva già espressamente chiarito che quando un giudice valuta, sulla base delle norme processuali, l’esistenza di un impedimento opposto dal governo «si mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale» e non «invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato».
Questa volta davvero il governo ricorrente non ha fatto una bella figura, prima pretendendo di esercitare un delicato potere al di fuori di ogni forma di leale collaborazione e successivamente non badando minimamente a quanto la Corte Costituzionale aveva scritto sul punto con chiarezza.