Alessandra Pieracci, La Stampa 20/6/2013, 20 giugno 2013
ITALIANO UCCISO IN SIRIA, CACCIA AI CONVERTITI DA IBRAHIM
Giuliano Delnevo, il ventiquatteenne genovese morto in Siria combattendo con i ribelli, era «monitorato», ovvero intercettato e seguito da quattro anni: da quando, nel 2009, aveva cominciato a frequentare i siti da cui la jihad islamica lancia i suoi messaggi e fa proselitismo. Sono siti che gli investigatori della Digos controllano grazie ad agenti civetta che si infiltrano lungo i difficili percorsi di collegamento. Il giovane era considerato un soggetto pericoloso, sorvegliato così da vicino che c’erano anche gli investigatori dell’antiterrorismo quando aveva girato, sul mare, con la Fiera di Genova a far da sfondo, uno dei messaggi più forti contro l’Occidente per il suo «Liguristan» su youtube.
Dall’informativa della Digos all’indagine della magistratura: l’ipotesi di reato della Procura di Genova, infatti, è di reclutamento e addestramento con finalità terroristiche. Gli indagati al momento restano quattro: con Delnevo un altro italiano che aveva condiviso il processo di conversione all’Islam, e due nordafricani, che potrebbero essere stati il riferimento per i suoi viaggi in Marocco, dove si era anche sposato. Perché, se il «salto di qualità» di Giuliano, diventato Ibrahim, è avvenuto a quanto pare in seguito all’indottrinamento in rete, i primi contatti con il mondo islamico sono nati naturalmente in quei vicoli della città vecchia dove convive un crogiuolo di culture. La conversione religiosa si era completata ad Ancona, dove il giovane aveva lavorato per qualche tempo.
Nei vicoli Giuliano Delnevo abitava con la madre, dopo la separazione dei genitori. Il padre, ex dirigente di una compagnia petrolifera che ha passato parecchio tempo in Argentina (la moglie insegnava lettere nella scuola per italiani) ha avuto per primo la notizia della morte: una telefonata alle 7 del mattino di giovedì della scorsa settimana.
Ibrahim era partito per la Siria nel novembre del 2012, passando dalla Turchia. Si teneva in contatto con la madre e con il padre grazie a Skype. Ogni volta i genitori lo pregavano di tornare. «Ho trovato la mia via, non ti preoccupare, sono forte, sono qui a aiutare le donne e i bambini e a difendere la mia fede» aveva detto al padre nell’ultima conversazione, tre giorni prima della morte. Poi più nulla, fino a una chiamata dal suo numero: dall’altra parte una voce che parlava in inglese. «Troveremo il suo corpo e lo seppelliremo con i suoi fratelli. Ti diremo dove, così potrai venire a salutarlo» la promessa al genitore da parte del comandante del gruppo di ribelli di cui faceva parte Ibrahim. «Era difficile vivere con un convertito all’Islam, i cinque pasti, le abluzioni, la preghiera, il suo modo di vestire che attirava curiosità» ricorda il padre, cattolico, che vuole comunque ricordare che il secondogenito «è morto per salvare un amico ferito. Mio figlio non era un terrorista».
La madre, invece, consumata dall’attesa, si è chiusa in se stessa. «Non mi sento di parlare con nessuno, non venite a trovarmi, non sono a casa» ha detto per telefono agli amici. Che inutilmente si arrampicano fino all’ultimo piano del palazzo nei vicoli dove, sul pianerottolo, in una nicchia ci sono i libri che la mamma di Gabriele ha sempre lasciato a disposizione di tutti. «Giuliano era intelligentissimo, forse troppo per essere inquadrato nella normalità della scuola - lo ricorda un insegnante - ma era sempre e comunque pronto alla critica, al dubbio, così diverso da come viene raccontato ora».
Ora gli investigatori stanno cercando di ricostruire la sua rete di contatti, coltivata con frequenti viaggi in Inghilterra, Spagna e Germania. E aspettano una conferma ufficiale della morte, se mai potrà arrivare, per escludere che Ibrahim possa essere semplicemente scomparso per riapparire, anonimamente pericoloso, in Occidente.