Marco De Martino, Vanity Fair 19/6/2013, 19 giugno 2013
ROMEO A NEW YORK
[Roberto Bolle]
NELLE VISCERE DELLA METROPOLITAN OPERA DI NEW YORK un lungo corridoio di armadietti stile high school porta ai piccoli camerini delle star dell’American Ballet Theatre. In quello che divide con Herman Cornejo, altro principal della compagnia, Roberto Bolle è seduto sul pavimento a fare esercizi di stretching. È appena sceso dal palcoscenico dopo avere danzato con Hee Seo, la sua Giulietta coreana di oggi, e sorride quando gli chiedo se gli fa ancora effetto essere Romeo a Manhattan: «Sinceramente sì, è una grande emozione», dice mentre lentamente fa scivolare le gambe su un piccolo cilindro di gommapiuma da palestra. «Questo è un teatro speciale non solo perché è enorme, con più di 3.800 posti, ma anche per la sua storia: tutti i grandi sono passati di qui. Sento ancora l’energia speciale di questa città elettrizzante, anche se ormai sono passati sei anni da quando ho ballato per la prima volta a New York».
Quell’anno, era il 2007, l’amica Alessandra Ferri lo portò in una piccola palestra su Broadway dove lei e altri primi ballerini si allenano assieme a gente che non sa neppure fare un passo di danza, perché basta pagare l’ingresso per partecipare alle classi. «Può accadere solo qui: la star e il passante insieme nella stessa stanza», dice Bolle, che si appresta a chiudere due mesi di lavoro a New York prima di affrontare una tournée in Corea e il tour italiano Roberto Bolle And Friends: «Una sera posso essere la supercelebrity a un gala e quella dopo uno qualsiasi in metropolitana: questa città mi dà un grande senso di libertà perché puoi scegliere come vuoi vivere».
E lei dove ha scelto di vivere?
«Uptown, al 30° piano di un grattacielo con vista sul parco: mi fa sentire più a New York; Downtown è troppo europea».
Si sente a casa?
«Ormai è una seconda casa. Conta anche il fatto di essere diventato principal dell’American Ballet, di sentirmi parte di un gruppo: nella mia vita professionale non è stato facile essere sempre l’ospite che doveva dimostrare di valere più degli altri perché era stato chiamato da fuori. Ora sono più a mio agio, anche se la concentrazione resta massima, perché non esiste al mondo una stagione più impegnativa di quella dell’American Ballet: otto spettacoli la settimana, e ogni settimana si cambia produzione. Ora faccio Romeo e Giulietta, la settimana prossima Il lago dei cigni, poi Sylvia. Richiede una grande dedizione».
Com’è la sua giornata tipo?
«Mi alzo, faccio riscaldamento a casa, cammino fino al teatro dove arrivo alle 9 e mezzo. E lì riscaldamento, lezione, prove: quando non c’è spettacolo, alle 7 di sera mi trascino a casa, abbastanza distrutto».
Non mangia mai fuori?
«La maggior parte delle volte cucino a casa. “Cucino” è una parola grossa: faccio un riso in bianco col grana oppure un’insalatona con tonno scottato e avocado. Se mangio cose sbagliate me ne accorgo subito: faccio più fatica a ballare».
Mai un muffin?
«Mai».
Un bagel?
«No».
Una fetta di cheesecake, almeno?
«Neppure: la cucina americana non fa per me. Se vado fuori preferisco i giapponesi, e qui ce ne sono di fantastici».
Un monaco a New York...
«Be’, non mettiamola così. Stavolta sono stato due mesi pieni, e quindi ho avuto occasioni di uscire e divertirmi. Ormai ho un gruppo di amici molto vasto, italiani e americani, ballerini della mia compagnia e anche del New York City Ballet».
Andate in discoteca?
«Mai. Ogni volta che ci vado mi ricordo di quanto non mi piaccia».
Che cosa le piace?
«I musical di Broadway. Stavolta ho visto Pippin, riedizione di un vecchio spettacolo, la storia di Pipino e di suo padre Carlo Magno: fantastico. Un’altra volta ero andato a vedere La gatta sul tetto che scotta con Scarlett Johansson, bravissima».
Le ha fatto venire idee per la sua prossima carriera?
«Tutti mi chiedono che cosa farò quando smetterò di danzare, ma per me non è un argomento all’ordine del giorno».
Le piace passeggiare?
«Molto, perché New York contiene tante città, ognuna diversa dall’altra. Un giorno ho preso la bici e sono andato da Riverside Park alla punta di Manhattan lungo la nuova ciclabile che costeggia il fiume Hudson: è una dimensione strana, ti dà una percezione diversa della città. Oppure mi piace camminare nel nuovo parco della High Line, creato recuperando un binario ferroviario abbandonato: passeggiarci è bellissimo, ogni pochi passi la prospettiva cambia. Le statue e i murales si alternano a grattacieli dall’architettura fantastica. Qui sono capaci di valorizzare anche il poco che hanno. Noi invece abbiamo luoghi e opere d’arte bellissimi a cui purtroppo non siamo capaci di dare valore».
Se avesse di nuovo 16 anni, starebbe a Milano o scapperebbe a New York?
«Non cambierei nulla di quello che ho fatto, e non solo perché se hai talento arrivi comunque, ovunque tu sia. Per me è stato fondamentale avere la Scala come baricentro da cui partire alla conquista del mondo: mi ha dato un’identità artistica e personale che altrimenti non avrei mai avuto. Quando torno a Milano, ritrovo me stesso».
Soffre di nostalgia?
«Per la mia famiglia, e infatti ci sentiamo spesso. Ma ora sto bene ovunque: ricordo ancora la prima volta che fui guest star al National Ballet a Londra: avevo paura di non essere all’altezza, ero insicuro, non vedevo l’ora di tornare a casa».
Che cosa porterebbe di Milano a New York, e viceversa?
«Qui porterei l’eleganza innata degli italiani nel vestirsi: talvolta guardarsi attorno è atroce. E da New York porterei in Italia la possibilità di uscire di casa con addosso quello che vuoi, senza essere subito giudicati male per questo, come capita a Milano».