Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 19/06/2013, 19 giugno 2013
NAZIONALISTI TRIBALI, IMAM E CAPI MILIZIE. IL CHI E’ DEGLI INSORTI
La loro forza sta nella debolezza. Da quasi dodici anni i talebani combattono contro la coalizione di eserciti più potenti al mondo, guidata dagli Stati Uniti e sostenuta dalla Nato. Nel dicembre 2001, con gli americani che controllavano Kabul, Al Qaeda in rotta e i mujaheddin dell’Alleanza del Nord alle loro calcagna, venivano dati per sconfitti, battuti, morti. Ma loro sono ricorsi alle tattiche che avevano garantito loro di resistere contro le truppe sovietiche oltre un decennio prima: si sono nascosti sulle montagne delle regioni orientali, tra i villaggi pashtun loro fedeli nei deserti sassosi di Kandahar e Helmand nel sud. Soprattutto sono tornati a tessere le alleanze con i leader delle regioni tribali pakistane e specialmente con i loro sostenitori storici tra i dirigenti dei potenti servizi d’informazione militari di Islamabad. In sostanza, hanno adottato le strategie classiche della guerriglia: gruppi sparsi, nessun tipo di scontro in campo aperto con eserciti convenzionali infinitamente più forti di loro (e le poche volte che ci hanno provato tra il 2005 e 2007 le hanno prese di santa ragione), ma piuttosto attentati mirati, mine sulle strade, attacchi contro i «collaborazionisti» degli «infedeli invasori», violenze volte a destabilizzare prima le province più remote, quindi il resto del Paese sino alla capitale.
La loro strategia è stata vincente. Ormai da almeno quattro anni tengono in ostaggio il futuro dell’Afghanistan. Nulla garantisce che dopo il ritiro del grosso delle forze Nato-Isaf, previsto per la fine del 2014, il Paese non precipiti nel caos. Non è un caso che gli attentati siano adesso molto più numerosi contro i politici e i militari afghani piuttosto che ai danni dei soldati stranieri. E oggi sono gli stessi ufficiali Nato ad ammettere che uno «degli errori maggiori commessi dagli americani fu distogliere armi, uomini e soprattutto attenzione dall’Afghanistan già nel 2002 per privilegiare la guerra contro Saddam Hussein». Prova della loro forza minacciosa è che ora, esattamente nel momento in cui la Nato trasferisce il controllo formale dell’intero Paese alle nuove brigate di sicurezza afghane, l’amministrazione Usa annuncia l’avvio di negoziati proprio con i talebani.
Eppure, la strada resta tutta in salita. Il movimento talebano è profondamente diviso al suo interno tra nazionalisti puri figli delle realtà tribali, imam locali e signorotti della guerra legati alle piccole cerchie dei villaggi. Ma anche utopisti ancora sognanti la «guerra santa» dell’internazionalismo qaedista, oltre ai militanti pakistani dei Tehrik Taliban Pakistan e il temibile movimento Haqqani, figlio del tempo della «guerra santa» anti Urss, radicato specie nel Waziristan pakistano, ma con forti basi nell’Afghanistan orientale e meridionale dove alimenta praticamente indisturbato la produzione dell’oppio.
Proprio gli Haqqani, ma anche molti tra i talebani pakistani, sarebbero contrari a qualsiasi intesa con la Nato. Quanti combattenti in tutto? «Tra i venti e trentamila. Ma il loro numero cambia a seconda delle stagioni. Diminuisce d’inverno, si gonfia a fine primavera», rispondono i portavoce Nato nella capitale. Circa 6.000 di loro avrebbero aderito al progetto di disarmo pagato dai Paesi della coalizione occidentale che offrono oltre 2.000 dollari a chiunque deponga il fucile. Salvo poi, in molti, essere tornati alla clandestinità. Loro comandante supremo è ancora il mullah Omar, il leader carismatico accecato a un occhio durante la guerra contro i russi e oggi assurto a figura leggendaria. Sembra che ormai da molto tempo abbia abbandonato il nascondiglio nella zona di Quetta (in Pakistan), dove era fuggito nel 2001. Due anni fa veniva segnalato a Karachi, ora a Lahore. «L’apertura dell’ufficio di Doha non è una novità. Senza il consenso del mullah Omar non c’è accordo», ripete adesso il suo ex ambasciatore a Islamabad, Abdul Salam Zaeff. La verifica della legittimità degli interlocutori sarà necessaria per rendere credibile il negoziato.
Lorenzo Cremonesi