Sergio Romano, Corriere della Sera 19/06/2013, 19 giugno 2013
IL CONTO AMARO DELLA STORIA
La notizia proviene dal Qatar, vale a dire da un piccolo Paese straordinariamente ricco, divenuto in questi ultimi anni la potenza regionale che persegue i propri obiettivi internazionali con maggiore fantasia ed efficacia. I talebani hanno aperto un ufficio sul suo territorio e sono pronti a trattare la fine del conflitto afghano. A Washington e a Belfast, dove Barack Obama partecipa alla riunione del G8, la notizia è confermata. Vi sarà un negoziato e gli americani ne faranno parte insieme al governo di Kabul.
L’annuncio cade nel giorno in cui gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato trasferiscono alle forze afghane il compito di garantire la sicurezza del territorio. In altre parole il negoziato comincia nel momento in cui la parte che si considera vincitrice abbandona un Paese che è in parte occupato dal nemico, in parte continuamente insidiato dai suoi attacchi terroristici. I trattati di pace, generalmente, si negoziano mentre il vincitore tiene saldamente nelle sue mani il controllo del territorio e può in qualsiasi momento interrompere le trattative senza perdere nulla di ciò che ha conquistato. In questo caso, invece, il vincitore negozierà mentre se ne sta andando. Può sempre tornare con i suoi droni e con le altre forze di cui dispone nella regione. Ma la partenza degli americani ha un valore simbolico che peserà sull’andamento del negoziato e sui suoi risultati.
Per dimostrare che il ritiro delle truppe non è una ritirata Washington comunque ha già annunciato le sue condizioni. I talebani dovranno rompere i loro rapporti con Al Qaeda. Dovranno rinunciare alla violenza e impedire che il loro territorio divenga una base per operazioni militari contro altri Paesi. Dovranno rispettare la Costituzione afghana con particolare riferimento allo stato delle donne e delle minoranze. Non sono questi gli obiettivi di cui l’America di Bush si sarebbe accontentata nell’ottobre del 2001 e soprattutto non sono quelli perseguiti dal momento in cui gli Stati Uniti dovettero rafforzare il loro contingente e sollecitare l’intervento della Nato.
Nessun segretario di Stato o capo di Stato Maggiore sembrava disposto, in quegli anni, a riconoscere l’esistenza di un territorio talebano indipendente. Ma gli obiettivi fissati dagli americani per le trattative ora annunciate saranno pur sempre, se i talebani s’impegneranno a rispettarli, il meglio che l’America e l’Occidente potessero aspettarsi da una guerra iniziata con l’invasione sovietica del dicembre 1979. Gli Stati Uniti, allora, finanziarono la resistenza, fornirono armi ai mujaheddin e costrinsero i sovietici ad andarsene nove anni dopo. Ma furono le levatrici del movimento talebano e di un impresario del terrorismo, Osama bin Laden, che sarebbe divenuto, parecchi anni dopo, il loro più pericoloso nemico. Dobbiamo ora sperare che il negoziato si concluda nel migliore dei modi. Ma gli americani dovrebbero chiedersi se questa vicenda non abbia qualche somiglianza con quelle del Vietnam e dell’Iraq, per non parlare della dissennata operazione militare contro la Libia in cui gli Stati Uniti, per la verità, non hanno avuto il ruolo principale. Stiamo parlando di guerre fatte in nome della democrazia che producono risultati diametralmente opposti a quelli che la superpotenza si era prefissa e si lasciano alle spalle più nemici di quanti l’America e l’Occidente ne avessero all’inizio delle operazioni.
Sergio Romano