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 2013  giugno 19 Mercoledì calendario

EXIT STRATEGY CON IL MULLAH OMAR

Sullo sfondo lacustre di Lough Erne nella foto di gruppo dei grandi della Terra si sono materializzati gli avatar dell’allampanato Bashar Assad, del monocolo Mullah Omar e il volto severo della Guida Suprema Alì Khamenei. Di questi tre è il Mullah Mohammed Omar il personaggio più misterioso. Il 4 aprile del 1996 un gigante barbuto di quasi due metri, in turbante nero e una benda sull’occhio, salì su un edificio di Kandahar indossando il mantello del Profeta Maometto, custodito in una moschea, e fu acclamato da una folla di studenti coranici pashtun come il Comandante dei Credenti: era un combattente che in un paio d’anni si era impadronito dell’Afghanistan. In Occidente nessuno conosceva il Mullah Omar ma fu proprio il capo dei talebani, sul quale circolavano gli aneddoti più disparati, che accolse Osama Bin Laden, il saudita capo di al-Qaeda, senza però partecipare agli attentati dell’11 settembre. Quando arrivarono gli americani, narrano, si dileguò in motocicletta lasciando una sola foto in cui non guarda nell’obiettivo: il super latitante, con una taglia da 25 milioni di dollari, diventa ora il possibile interlocutore di una exit strategy per evitare la dissoluzione dello Stato afghano in un’ennesima guerra civile.
Il comitato dei talebani che negozierà in Qatar, come aveva per altro già annunciato prima di Washington lo stesso presidente afghano Hamid Karzai, è costituito da diverse fazioni ma la principale appare la Shura di Quetta del Mullah Omar, il gran consiglio con sede nel Baluchistan pakistano: dopo 12 anni di guerra, nello stesso giorno in cui l’Isaf-Nato trasferisce la sicurezza nazionale al disorganizzato esercito di Kabul, si produce una svolta storica. Il portavoce talebano in una conferenza a Doha ha annunciato l’apertura di un ufficio presentandosi con la bandiera dell’Emirato islamico, un gesto che potrebbe avere innervosito Karzai che in questo negoziato, più volte annunciato, vede una chance di sopravvivenza politica.
Siamo di fronte a una sconfitta o una vittoria? Dall’Afghanistan un impero come quello britannico nell’800 e poi la superpotenza sovietica nel 1989 erano usciti con le ossa rotte. Una cosa è certa: i talebani non sono stati decimati, non è una trattativa tra vincitori e vinti. È un’iniziativa che corregge un errore clamoroso: l’accordo di Bonn del 2001, dopo l’invasione americana, aveva escluso i talebani, mentre la loro presenza avrebbe forse evitato l’insurrezione cominciata nel 2003. Ma la risposta per gli Stati Uniti e i loro alleati, tra cui l’Italia, non può essere ancora definitiva, come non è così fatale la data del ritiro nel 2014 perché alcuni contingenti si fermeranno per assistere militarmente gli afghani. Inoltre bisogna capire come i talebani verranno coinvolti nel governo afghano. I passi sono lunghi e comprendono il rilascio dei prigionieri da Bagram e Guantanamo: i talebani sono ossessionati dall’idea di liberare i capi dal carcere.
Un altro interrogativo è chi saranno quelli disposti alla pace. Il comandante americano dell’Isaf dubita che la rete di Jalaluddin Haqqani, pur rappresentata a Doha, abbia voglia di stipulare un accordo, condizionata dai suoi potenti sponsor, i servizi segreti militari pakistani dell’Isi.
Una distinzione importante tra i talebani, anche se i confini tra i gruppi sono spesso arbitrari, è proprio questa, tra l’ala cosiddetta nazionalista e quella che mantiene più stretti contatti con Islambad. I negoziati non prevedono la presenza del Pakistan anche se sarà il convitato di pietra perché è lì che molti guerriglieri hanno i loro santuari, ai confini con il Waziristan.
Il negoziato di Doha dovrà smentire la convinzione più pessimista che i Talebani non debbano far altro che aspettare la partenza delle forze americane e alleate per prendere il potere a Kabul. Secondo questa versione i seguaci del Mullah Omar non hanno una vera motivazione a trattare.
Ahmed Rashid, grande esperto di Afghanistan, sostiene che i leader talebani sono cambiati. Pur ribadendo che le truppe straniere devono lasciare il Paese per stabilire un vero sistema islamico, sembrano più flessibili. Forse sono soltanto più realisti: hanno capito che nel 2014 non ci sarà come nel 1989 un Friendship Bridge, dove l’ultimo soldato russo attraversò l’Amur Dariya. Inoltre i capi, che furono finanziati da al-Qaeda, hanno preso le distanze dall’organizzazione: il Mullah Omar non ha mai giurato fedeltà a Osama e neppure adottato il programma della Jihad globale, come hanno fatto i talebani pakistani. Vedremo quindi se prevarrà l’ala nazionalista o quella jihadista: la prima vuole evitare che l’Afghanistan diventi un nuovo un campo di battaglia delle influenze esterne. Anche i talebani sono logorati da una lunga guerra, hanno subito forti perdite e vogliono liberarsi dalla tutela di Islamabad. Nella decisione di negoziare c’è anche un calcolo che gli afghani non trascurano quasi mai: entrare in una coalizione di governo con dei filo-occidentali può portare sostanziosi aiuti economici. I mujaheddin, sostiene un vecchio detto, non si comprano ma si affittano. È quindi possibile almeno una "pace in prestito".