Gianni Clerici, la Repubblica 19/6/2013, 19 giugno 2013
MATCH POINT QUANDO IL TENNIS GIOCA IN DOPPIO CON LA LETTERATURA
Una bella sera del 1970, usciamo dal West Side Tennis Club, nel Queens, sede dello US Open, e decidiamo di offrirci una cena da Mauro Luzardi, un ristorante come si deve. Siamo in tre, Bud Collins, la moglie, e io. Bud Collins ha appena firmato la sua dose quotidiana di autografi, un centinaio, perché è il più conosciuto columnist di tennis del suo Paese, scrive sul Boston Globe, trasmette dalla Cnn, e insomma è l’unico scriba vivente santificato dalla Hall of Fame, una specie di Lourdes del Tennis. Io stesso attraverso momenti di accettabile notorietà fingendomi il suo autista.
Sbarchiamo dunque da Luzardi (2nd Av. e 47esima Strada), veniamo subito accolti al tavolo lasciato vuoto per i Vip (Very important pigs) e io mi metto a darmi arie nel raccontare la mia column appena inviata quando Bud mi fa cenno di tacere, indicandomi al contempo un bel signore che cena con un amico. Sottovoce, mi informo di chi sia, perché Luzardi ha una fior di clientela. «John McPhee», mi sussurra con aria adorante Bud, e resosi conto della mia ignoranza, «l’autore del Formidabile Esercito Svizzero, come non lo conosci, tu che sei mezzo svizzero, del Ducato di Milano». E alla mia sorpresa: «Almeno Levels of the Game, almeno quello l’avrai letto. Il miglior libro sul tennis mai scritto, addirittura meglio dei miei». Rispondo di no. E, allo sdegno di Bud, rispondo che, con il Professor Giorgio Nonni di Urbino, abbiamo tirato fuori dalla naftalina Antonio Scaino da Salò, il primo a scrivere un trattato sul tennis nel 1555, un po’ prima di McPhee. «È quello il protolibro sul tennis», «il solito Rinascimento, l’ultima volta che avete combinato qualcosa». Non contento, Bud, che è per solito avaro, si alza, scende in cucina, e ne riemerge con una bottiglia di Barbaresco Gaja che va a depositare sul tavolo di McPhee.
«Omaggio all’autore di Levels of the Game», afferma. McPhee si alza in piedi, dichiara di conoscere benissimo Bud e i suoi libri, e appare interessarsi anche a me, che Bud presenta come un volonteroso dilettante il cui 500 anni di tennis è stato casualmente tradotto dal dialetto milanese in quattro lingue europee ed è un bestseller in Giappone. Chiediamo a McPhee come gli sia venuto in mente Levels of the Game, e lui ci risponde che da maniaco del tennis, che gioca a livello di club, voleva fare un libro su una partita importante, tra due che rappresentassero qualcosa di molto americano, che fossero avversari ma non nemici, che alla fine del match giungessero a stringersi la mano: un auspicio per la partita sempre aperta tra democratici e repubblicani, tra ricchi e poveri, ma soprattutto tra bianchi e neri. Ciò detto, ci beviamo la bottiglia tra i brindisi, e, come McPhee si allontana, Bud prende a spiegarmi il libro che acquisterò di volata la mattina
dopo, da Scribner, sulla Quinta.
È, in apparenza, la storia scritta su uno score sheet, un foglio arbitrale, della semifinale giocata nel settembre del 1968 a Forest Hills tra il mio carissimo Arthur Ashe e Clark Graebner. Arthur è un discendente di schiavi giunti fin dal 1735 (genealogia rintracciata) e suo padre ha fatto di tutto pur di offrire una vita diversa dalla sua al più promettente dei suoi sei figli. Graebner è borghese, figlio di un dentista di Cleveland, un fanatico di tennis di quelli che costringono i figli a diventare quel che papà avrebbe voluto essere. Affermazione per interposto figlio, insomma. A divenire quel che è, il numero due del team di Coppa Davis, Clark non troverà che ostacoli sportivi. Arthur incontrerà invece sulla sua strada tutte le difficoltà sociali tipiche del suo tempo. Simili a quelli di un’altra mia amica, quella Althea Gibson, vincitrice di Wimbledon 1957 e ’58, che al suo primo ingresso negli spogliatoi di Forest Hills vide tutte le tenniste bianche uscire indignate, quasi lei avesse la lebbra.
Arthur riesce a superare le difficoltà razziali grazie a un benefattore quale il Dottor Johnson, medico di Lynchburg (nomen omen) seconda laurea in Beneficenza, spina dorsale dell’Ata (American Tennis Association) versione nera della Uslta (United States Lawn Tennis Association). Sarà Arthur, dapprima membro del Jr. Development Team (nero) poi, grazie alla racchetta (metallica) riuscirà a raggiungere la laurea all’Ucla e l’Accademia di West Point, tenente dell’esercito. Quello che racconta McPhee non è insomma un match di tennis, del quale è difficile ricostruire il risultato (4-6, 6-0, 7-5, 6-2), né accenna al match successivo che porterà Ashe al suo primo Slam contro Tom Okker, l’olandese volante. (Il secondo Slam giungerà tardi, a Wimbledon 1975, contro Connors).
Levels of the Game, è la vicenda di un incontro che consente allo scrittore di suggerirci com’era fatta l’America tramite due americani. In una continua metamorfosi tra la storia e il saggio, la verità e la fiction, qualcosa di tanto rigoroso da non sembrar tale. Come mai simile libro giunga solo ora da noi rappresenta una sorta di mistero per chi non sia addentro al mondo dell’editoria, un mondo che io fatico ancora a capire dopo aver pubblicato ventuno libri, biografie, romanzi, racconti poesie e libri didattici, attendendomi invano risultati degni di un premio Strega, o sorprendenti vendite da pubblicazioni che ritenevo fallite in partenza.
Si dà il caso che un editor di un’editrice lontanissima dal tennis quale l’Adelphi fosse un grande appassionato, uno di quelli che ho denominati aficionados, per l’analogia con i patiti della corrida, e la diversità dai tifosi. E si dà il caso che io non abbia fatto altro che citare McPhee quando ancora non ero stato licenziato dalla televisione, causa la mia accertata insufficienza culturale. Sono un po’ preoccupato per quanto avverrà a quello che in Italia viene presentato ora col titolo assoluto di Tennis (Adelphi, a cura di Matteo Codignola), dopo il successo ottenuto da mediocri libri quali Il tennis come esperienza religiosa, di Foster Wallace, Non puoi dire sul serio, di James Kaplan su McEnroe, e Open, biografia immaginaria di Andre Agassi. Potrà avere successo anche un libro straordinario?