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 2013  giugno 16 Domenica calendario

IN IRAN SVOLTA SOFT PER NON CAMBIARE

Fino a ieri era incredibile, impossibile e inammissibile. Ora è realtà. Hasan Rohani, il candidato riformatore conqui­sta la presidenza al primo turno con il 50,68 per cento dei voti. Dunque niente ballottaggio e niente incertezze. La Repubbli­ca Islamica manda in pensione Mahmoud Ahmadinejad e le sue esternazioni per tornare all’era di Mohammad Khatami, il presidente gentile, rispettato dal mondo, ma incapace di cambiare il regime.
Congedati l’ex sindaco di Teheran Mohammad Bagher Qalibaf e il negoziatore nuclea­re Saeed Jalili, grandi favoriti di ieri, bisogna ora capire cosa si nasconda dietro una vittoria inattesa nell’esito e nelle pro­porzioni. Hasan Rohani, il can­didato «improbabile» in cui non speravano neppure i rifor­matori, raccoglie da solo otto milioni di voti in più dei due più agguerriti concorrenti. Diciot­to milioni e 600 mila vo­ti contro i 6 milioni di Qalibaf e i 4 di Jalili. In una Repubblica Islami­ca dove i voti contano solo se la Suprema Gui­da, l’ayatollah Alì Kha­menei, decide di farli valere, il risultato non passa inosservato.
Cosa c’è dietro? Per comprendere perché Khamenei e i suoi ab­biano tenuto aperti i seggi ben oltre l’orario ufficiale garantendo l’afflusso di milioni di elettori riformisti inde­cisi bisogna guardare a uno sce­nario internazionale dove l’intervento americano sul campo di battaglia siriano appare sem­pre più probabile. Perdere la Si­ria significa per Teheran rinun­ciare all’asse con Hezbollah in­di­spensabile per tenere sotto ti­ro Israele e giocare il ruolo di grande potenza regionale. Con­segnare la presidenza ad Ha­san Rohani, il negoziatore nu­cleare che nel 2003 convinse Khamenei a sospendere l’arric­chimento dell’uranio significa, di fatto, riaprire all’Occidente e dunque rendere assai impopo­lare un’eventuale decisione di bombardare la Siria e rinuncia­re al negoziato sul nucleare. Una tesi confermata dall’in­fluente ex presidente Hashemi Rafsanjani che su twitter scrive: «Sono state le elezioni più de­mocratiche del mondo, i nemi­ci dell’Iran non potranno dubi­tarlo». Khamenei si regala dun­que un po’ di fiato sul fronte internazionale senza rischiare molto su quello interno. Conse­gnare la presidenza ad un can­didato uscito dalle accademie religiose di Homs come Rohani significa infatti regalare ai rifor­matori una vittoria gradita, ma inutilizzabile per cambiare le fondamenta del regime. Grazie al volto disponibile di Rohani, a una maggiore flessibilità sul nucleare e a qualche mediazione sul fronte siriano, Teheran po­trebbe invece ottenere un rilas­samento delle sanzioni indi­spensabile per contenere il mal­contento di una popolazione fiaccata da cri­si economica e inflazione. Il Khamenei de­ciso apparen­temente a spe­dire all’infer­no gli america­ni mette a se­gno un colpo da grande fu­nambolo sacrificando i candidati conservatori sull’alta­re del pragmatismo internazio­nale. Un sacrificio ininfluente in termini di potere reale. L’ar­chitettura istituzionale irania­na non garantisce infatti alcu­na opzione al presidente e al suo esecutivo nell’ambito della politica nucleare o delle decisioni strategiche. E le poche scelte del governo possono co­munque venir bloccate dal Par­lamento, dalla Guida Suprema o dal Consiglio dei Guardiani. Non solo. Oltre a cambiare l’im­magine del paese consegnan­do alla storia le estemporanee uscite di Ah­madinejad, l’affermazione di Rohani allontana il pe­ricolo di imbarazzanti mani­festazioni co­me quelle regi­strate dopo la beffa elettora­le del 2009. Dietro il gioco di specchi del voto e del suo ri­sultato cambia invece assai po­co. Il paese resta nelle mani di una classe dirigente capace di usare al meglio la maschera ri­formista del nuovo presidente per gestire il potere con lo stile e la sostanza di sempre.

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L’EX MULLAH COMBATTENTE SCESO A PATTI CON L’OCCIDENTE -
Rivoluzionario islamico della prima ora, mullah combattente, che nel tempo si trasforma in abile diplomatico sul nuclea­re iraniano e coalizza i riformisti dati per spacciati. Hassan Rohani, 64 anni, il nuovo presidente iraniano con turbante e mantel­la dei religiosi sciiti, più che un progressista è un conservatore moderato.
Originario di Sorkheh, nel nord del pae­se, fin da giovane prete islamico finisce nel mirino della Savak, la temibile polizia se­greta dello Shah. Rohani fugge all’estero e raggiunge l’ayatollah Khomeini in esilio a Parigi. Con la caduta dello Shah si trasfor­ma in mullah «combattente» gettando le basi delle nuove forze armate della nascen­te Repubblica islamica. Durante la spaven­tosa guerra con l’Irak viene fotografato al fianco del suo grande padrino, l’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Rohani, sot­to la mantella religiosa, indossa l’uniforme verde scuro. Alla fine della guerra lo stesso ayatollah Alì Khamenei gli appunta la me­daglia Nasr, una delle più alte onorificenze militari iraniane.
Il mullah combattente si sposa con Nae­meh. La coppia ha quattro figli, ma il primo­genito, Hussein, muore suicida nel 1992. Rohani, oltre ai corsi religiosi a Qom, si lau­rea in legge per poi perfezionare i suoi studi all’università scozzese di Glasgow. Politico di lungo corso viene eletto parlamentare per 20 anni. Non sempre mostra il suo volto umano. Nel 1999, durante le proteste di piazza per la chiusura di un giornale rifor­mista, invoca la pena di morte per i «sabota­tori». Quando diventa presidente Rafsanja­ni, detto «lo squalo», nomina Rohani segre­tario del Consiglio supremo per la sicurez­za nazionale. Un incarico ricoperto per 16 anni anche durante la presidenza dell’ayatollah Seyyed Mohammad Khatami, fi­gura di riferimento dei riformisti, altro suo grande sponsor nella vittoria di ieri.
Nel 2003 Rohani si fa apprezzare dagli oc­cidentali per l’accordo con Francia, Gran Bretagna e Germania sulla moratoria dell’arricchimento dell’uranio per il program­ma nucleare. In questo frangente i giornali iraniani lo ribattezzano «sheikh diplomati­co». Rohani è anche membro del Consiglio del discernimento e dell’Assemblea degli esperti, potenti istituzioni iraniane. L’astro del mullah diplomatico cresce dopo la du­ra repressione delle proteste contro i so­spetti brogli per la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad nel 2009. La sua candidatura alle presidenziali coalizza i riformisti e so­prattutto attrae i conservatori moderati. Ol­tre a due ex presidenti come Rafsanjani e Khatami incassa l’appoggio dell’hojatole­slam Hassan Khomeini, nipote del defunto leader della rivoluzione islamica.
In campagna elettorale riempie le piazze promettendo più libertà, diritti per le don­ne e addirittura la scarcerazione dei prigio­nieri politici. Nei dibattiti in tv rompe i tabù del nucleare e dell’isolamento dell’Iran. Sembra quasi ipotizzare il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti interrotte dal 1979. La classe media e la pancia del bazar lo vota per gli impegni di rinascita dell’economia anche negozian­do l’allentamento delle sanzioni.
La sua vittoria dimostra che solo un reli­gioso al potere potrà tentare di ammorbidi­re dall’interno la Repubblica degli ayatol­lah.