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 2013  giugno 18 Martedì calendario

«CANTAVAMO PIPPI, POI LEI HA SMESSO. COSI’ HO DIMENTICATO ELENA NELL’AUTO» —

Le note di una canzoncina inchiodate alla memoria: «Ricordo che fino a metà del tragitto Elena cantava Pippi Calzelunghe assieme a me, ricordo il rallentare del canto... Ho pensato che si fosse addormentata e ho continuato a guidare verso l’asilo, a quel punto concentrato sulle incombenze delle giornata. Casistica clinica, lezioni, studenti da seguire, trasferimento nella nuova sede. E poi la ristrutturazione della casa, mia moglie Chiara incinta di otto mesi...».
Quell’asilo è un po’ più in là dell’università dove Lucio Petrizzi insegna chirurgia veterinaria. «Per arrivarci io passavo qui, davanti al lavoro — racconta lui indicando un punto indefinito oltre il vetro del suo ufficio —. Quella mattina ho visto da lontano colleghi che stavano nel parcheggio a parlare e in quel momento tutta la mia attenzione è stata catturata da loro».
I colleghi, il lavoro, le troppe cose da fare. Tutto questo assieme ha fatto la differenza fra la vita e la morte di Elena, la sua bambina di 18 mesi. «I colleghi sono diventati in un istante il mio pensiero prevalente e seguendo quel pensiero sono entrato nel cortile dell’università e ho parcheggiato. È un meccanismo neurofisiologico, si sconnette la coscienza, si fanno le cose in automatico. Li ho salutati, siamo saliti assieme in ufficio, avevo in testa quello che dovevamo fare durante la mattina. Elena era scomparsa dalla mia mente, per me era all’asilo, al sicuro».
In macchina, proprio sotto la finestra dell’ufficio di Lucio e sotto il sole spietato di quel 18 maggio 2011, invece Elena ha boccheggiato fino all’una del pomeriggio. «Sono sceso per la pausa pranzo e quando sono salito in macchina ho sentito un rumore, un gemito. Per un istante ho pensato che un cane fosse entrato nell’auto, poi mi si è accesa la lampadina, mi è piombato addosso il terrore, è stato come se il sangue non circolasse più».
Il cuore del professore batteva così forte che quasi potevi sentirlo, dicono tutti. I colleghi, i bidelli, gli studenti a cercare inutilmente di calmarlo: «Vedrai che andrà bene, sta arrivando il 118, il battito c’è, lei respira». Era solo un gioco crudele della sorte. L’agonia della piccolina bionda è durata tre giorni. Tre giorni per tenere accesa la speranza e chiedere prestiti al tempo. «Ma io l’ho capito subito, quando l’ho presa, che non c’era più nulla da fare. Era completamente incosciente, ricordo che ho cominciato a chiamarla, l’ho abbracciata, ho cercato di rianimarla, di raffreddarla, di fare la respirazione bocca a bocca...».
Lucio si concede una pausa per non piangere. Un sospiro, come quando si esce dall’acqua a riprendere fiato prima di immergersi di nuovo in apnea. «Non siamo né mostri né pazzi, mi creda. Lo so che sembra impossibile e assurdo dimenticare un figlio in macchina ma io ci sono passato e lo posso dire: è successo a me, è successo ad altri prima e dopo di me e può succedere a chiunque. A persone normali e perbene, come noi. Negare che possa accadere significa permettere che accada di nuovo. Negli Stati Uniti si parla di più di trenta casi l’anno: possono essere tutti pazzi? Io sono imperdonabile, certo. Ma credo anche che in quello che mi è successo ci sia un difetto del vivere moderno. Questo continuo correre, questo senso del dovere esagerato, questo fare più cose assieme e dover sempre dimostrare di essere all’altezza... centomila obiettivi, risultati da raggiungere, e così ti perdi l’importanza delle cose reali. Finisce che lo spazio per portare tua figlia all’asilo lo ricavi, non è che costruisci il resto su quello spazio. E però se la società ci dice che dobbiamo correre ci deve dare anche la sicurezza per farlo. I sistemi di allarme sulle auto per non dimenticare mai più un bambino sono una possibilità, le scuole e gli asili che chiamano a casa se non vedono arrivare il piccolo sono un’altra possibilità. A questo punto qualcosa deve essere fatto».
Lucio come Andrea, il padre di Luca morto a due anni, due settimane fa. «Quando l’ho sentito sono rimasto senza fiato davanti alla televisione — racconta il professor Petrizzi —. È stato come sprofondare nell’abisso, di nuovo mi è sembrato di tornare nel parcheggio dell’università e avere fra le mie braccia Elena incosciente. Ho in mente ogni passaggio di tutto il calvario che Andrea e sua moglie dovranno sopportare. L’ho chiamato, prima o poi ci incontreremo ma adesso ha bisogno di tutto tranne che della mia invadenza».
La memoria corre ai giorni in cui era lui ad avere «bisogno di tutto». «A differenza di Andrea io non ho mai preso farmaci. Il dolore bisogna percorrerlo fino in fondo, non ci sono scorciatoie». Ed è il dolore che spesso seleziona dettagli fra i mille ricordi di Elena. Coincidenze, per esempio. «Il giorno prima di quella mattina avevo letto che era più sicuro tenere il seggiolino dietro il sedile di guida e così l’ho spostato e l’ho reso meno visibile. Maledettamente, mentre Elena era in macchina al sole, io sono sceso a metà mattina per prendere dal bagagliaio delle cose e non l’ho vista perché c’erano i vetri oscurati... non l’ho vista, capisce?».
Provare a perdonarsi è un esercizio inutile. Non succederà mai. «Quando ci hanno detto che non c’erano più speranze abbiamo deciso di donare gli organi. È importante per noi l’idea che il cuore di Elena stia continuando a battere. Sappiamo come risalire ai bambini che vivono grazie a lei, un giorno se vorranno proveremo a guardarli negli occhi».
Ci vedranno dentro gli occhi della loro piccola e Lucio la ringrazierà, come fa ogni giorno passando davanti alle sue ceneri sepolte nel giardino di casa. «Grazie di avermi reso migliore», le dirà, immaginandola com’era quell’ultima mattina, un po’ vezzosa mentre mostrava il vestitino e chiedeva «papà sono bella?».
Dopo un mese e un giorno dalla morte di Elena è nata Sara. Per lei Lucio farebbe qualunque cosa eccetto una: portarla all’asilo. «Non ci riesco, non ce la faccio». Le ferite hanno bisogno di tempo e la strada per quell’asilo adesso è troppo buia. E accidentata.
Giusi Fasano