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 2013  giugno 18 Martedì calendario

ECONOMISTI INIZIAMO A DUBITARE DI NOI STESSI

Stabilità fiscale o stimoli alla crescita? Il dibattito sulle politiche anticrisi si fa ogni giorno più acceso. Fra gli economisti è ormai guerra aperta: sulle teorie, sui dati, sulle ricette, sulle rispettive responsabilità come consiglieri del principe. C’è un modo per decidere chi ha ragione? Purtroppo no. Le scienze sociali non sono in grado di scoprire verità inconfutabili né di formulare leggi del tipo «se... allora»: ad esempio «se il debito pubblico supera il 90%, sicuramente danneggerà la crescita economica».
Ciò che un economista (o uno scienziato politico) può e deve fare è proporre ipotesi sensate su cause ed effetti e confrontarle con i dati empirici a disposizione. Il massimo a cui possiamo aspirare è di non essere smentiti e di fornire indicazioni probabilistiche. Per agire abbiamo ovviamente bisogno di previsioni e prescrizioni: ma queste incorporano sempre margini di errore. Come diceva Popper, la scienza procede per congetture e confutazioni, una teoria può essere empiricamente falsificata, ma non definitivamente provata: la ricerca non ha fine.
Perché allora tante polemiche su torti e ragioni, su giusto e sbagliato? Per almeno due motivi, credo. Forti della elevatissima sofisticazione metodologica delle proprie analisi, alcuni economisti accademici hanno smarrito negli ultimi anni la lezione popperiana e creduto di poter fornire spiegazioni «autentiche» e dunque prescrizioni pressoché inoppugnabili su cosa fare o non fare. In tempi di acuta crisi, la richiesta di certezze da parte dei policy-makers è molto forte. In parte suo malgrado, la professione economica è diventata oggetto di aspettative molto alte e a volte ha ceduto alla tentazione di protagonismo, usando il linguaggio del «vero» anziché quello del «probabile» o del «possibile».
La seconda ragione ha a che fare con l’enorme rilevanza assunta dalle tecno-strutture di governo dell’economia globale: banche centrali, istituzioni economiche internazionali, grandi apparati di ricerca applicata, sia pubblici sia privati. Comprensibilmente, lo staff di tutte queste organizzazioni ha formazione e competenze spiccatamente (se non esclusivamente) economiche. Anche in questi contesti la pressione a produrre conoscenza immediatamente applicabile è enorme. Ma più ci si allontana dall’accademia, più alto è il rischio di indulgere in ciò che gli epistemologi chiamano realismo ingenuo: credere che la complessa struttura causale della realtà sia direttamente accessibile, basta avere il modello e i dati giusti. Quando si devono prendere decisioni urgenti, un approccio di questo genere è rassicurante. Purtroppo però modelli e dati non rispecchiano mai adeguatamente la realtà. Ciò che prevale, alla fine, è dunque la ricetta che riscuote il sostegno di quelle «coalizioni di idee» (e ideatori) di volta in volta più influenti, non sempre le più accorte sul piano scientifico. Succede in tutte le cerchie disciplinari: scienza politica, diritto, sociologia. Ma oggi i riflettori fanno luce essenzialmente sull’economia: è qui che la fiammella popperiana deve rimanere accesa.
La disputa sulla Grande Crisi invita a riflettere, più in generale, sul rapporto fra sapere scientifico e politica. Come evitare eccessi di aspettative da parte di chi governa o esagerate ambizioni prescrittive da parte degli esperti? La strada da percorrere resta quella indicata da Max Weber un secolo fa. La scienza deve «fare chiarezza», la politica deve decidere, tenendo conto del contributo prezioso ma fallibile del lavoro intellettuale. È al leader politico che spetta la sintesi finale fra conoscenze e valori, allo scopo di risolvere i problemi collettivi e assicurare il consenso. Come ha ricordato su queste pagine Michele Salvati (Corriere del 7 giugno), la politica più nobile si basa sulla brinkmanship: l’abilità di camminare (bene) sull’orlo del precipizio. Un’arte che richiede molta lungimiranza e, soprattutto, un elevato senso di responsabilità, senza deleghe a chi promette verità.
Maurizio Ferrera