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 2013  giugno 18 Martedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - I LAVORI DEL G8


REPUBBLICA.IT
MILANO - Si avviano alla conclusione i lavori al G8 dell’Irlanda del Nord e i leader delle potenze europee mettono nero su bianco le intese raggiunte in due giorni di lavoro, sulla cui efficacia sono stati sollevati non pochi dubbi (il videocommento). Nella conferenza stampa finale, il padrone di casa David Cameron ha chiarito immediatamente le decisioni sul tema fiscale: "Affinchè gli stati possano chiedere meno tasse è necessario che siano in grado di riscuotere le tasse", ha spiegato annunciando l’accordo sul contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale e sulla trasparenza su profitti e pagamenti al Fisco delle società multinazionali.
Cameron ha indicato che il principio di base concordato è che le autorità nel mondo devono poter condividere in modo automatico le informazioni fiscali. Ciò vuol dire che lo scambio automatico deve diventare lo standard globale. Già nella bozza del comunicato circolata in precedenza si leggeva: "Ci impegniamo a fare dello scambio aumatico di informazioni tra le autorità fiscali il nuovo standard globale e lavoraremo con l’Osce per sviluppare rapidamente un modello multilaterale che renderà più facile per i governi trovare e punire gli evasori". Le autorità fiscali del mondo "dovrebbero automaticamente condividere informazioni per combattere la piaga dell’evasione fiscale. Le nazioni dovrebbero cambiare le regole che permettono alle imprese di spostare i loro profitti oltre confine per evitare le tasse e le multinazionali dovrebbero riportare alle autorità fiscali quante tasse pagano e dove", era aggiunto.
Nei dieci punti c’è un riferimento ancor più preciso alle multinazionali: "Le compagnie - si legge in un testo emerso in mattinata - dovrebbero sapere chi realmente le controlla e le autorità che si occupano dell’esazione e i legislatori devono essere in grado di ottenere delle informazioni facilmente". Sull’elusione fiscale "supportiamo il lavoro dell’Ocse nel contrastare l’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti. Lavoreremo per creare un modello comune per le multinazionali perchè dichiarino alle autorità fiscali dove realizzano profitti e dove pagano le tasse nel mondo", si scrive e la mente corre all’ultimo caso che ha sollevato il problema, quello di Apple. Inoltre, "i Paesi in via di sviluppo devono avere le informazioni e la capacità di recuperare le tasse che gli sono dovute e gli altri Paesi devono aiutarli". D’altra parte c’era grande attesa intorno all’elemento fiscale: c’è chi ha stimato che solo nei due giorni di summit irlandese la bellezza di 2,2 miliardi di dollari di provenienza dubbia prenda il volo verso i paradisi fiscali.
Oltre alla questione fiscale, sul tavolo dei Grandi è finito di forza il problema occupazionale. "La nostra urgente priorità è promuovere la crescita ed il lavoro, particolarmente per i giovani ed i disoccupati a lungo termine", si legge nel documento circolato. Si individuano tre ricette per la crescita: "Sostegno alla domanda, sicurezza delle finanze pubbliche e riforme". Facendo riferimento in particolare all’Europa, si dice che deve proseguire con gli accordi dell’Unione bancaria perchè "fortemente necessaria" per ridurre la frammentazione finanziarie. E la "sostenibilità di bilancio deve andare insieme a strategie di crescita ben definite", incluse le "riforme strutturali" mirate a crescita.
Nel comunicato finale, invece, non c’è alcun riferimento al destino di Assad: "Rimaniamo impegnati - scrivono i leader - a raggiungere una soluzione politica della crisi siriana". Ad anticipare una soluzione in tal senso era stato il vice ministro degli Esteri del Cremlino, Serghiei Ryabkov. Cameron ha provato a cavare d’impiccio i Grandi spiegando in conferenza stampa: "Non è un segreto che vi siano state divergenze, ma tutti vogliamo la fine del conflitto".
Il primo giro di colloqui aveva deluso le aspettative e si era limitato a prendere atto della situazione di stagnazione economica. Le novità maggiori erano emerse sull’asse tra Europa e Stati Uniti, con i rispettivi leader che hanno posto grande enfasi nell’annunciare il via alle trattative per giungere a un accordo sul libero scambio che - a detta di Barack Obama - creerebbe decine di milioni di posti di lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico. Proprio il tema occupazionale è stato anche al centro dell’incontro faccia a faccia tra il numero uno Usa ed Enrico Letta. Il presidente del Consiglio italiano, tra l’altro, ha avuto ieri sera un colloquio con il presidente russo Vladimir Putin, nel quale si è parlato del prossimo summit del G20 in programma a settembre a San Pietroburgo e del prossimo vertice bilaterale in programma in autunno nel nostro Paese. Putin ha colto l’occasione dell’incontro per invitare Letta a Mosca.
(18 giugno 2013)

REPUBBLICA.IT
LOUGH EINE (Irlanda del Nord) - Questo G8 sotto la presidenza britannica sarà ricordato dai giornalisti, oltre che per le divisioni laceranti sulla Siria, anche per l’assoluto disastro organizzativo. Una débâcle che non viene percepita dal pubblico ma che rende molto difficile il lavoro dei 600 giornalisti accreditati da tutto il mondo. L’elenco delle magagne è lungo e a farne le spese è stato persino Vladimir Putin, che non è riuscito ad atterrare domenica sera a Belfast ed è stato costretto a dormire a Londra. Se lo zar russo ha le sue alternative, così purtroppo non è per gli inviati.
Capitolo controlli. D’accordo in Irlanda del nord fino a 15 anni fa l’Ira metteva le bombe e fidarsi è bene ma... la sensazione è che ci siano un particolare accanimento sui giornalisti, obbligati a sfilarsi cinture, orologi e svuotarsi le tasche anche al rientro notturno in albergo, quando potrebbero essere una minaccia al massimo per se stessi. "Lo sappiamo, è assurdo - sospirano i gentilissimi poliziotti ai metal detector - ma sono le disposizioni dall’alto: vi dobbiamo controllare anche quando ve ne andate". Tanta ossessiva solerzia viene poi clamorosamente contraddetta dalla sciatteria con la quale sono stati distribuiti i preziosi "pass" per accedere all’area rossa: chi è arrivato in ritardo domenica notte si è trovato da solo il proprio lasciapassare in una scatola di cartone, senza alcun riscontro o identificazione con la carta d’identità. Dal troppo al troppo poco.
Capitoli trasferimenti. Il caos britannico su questo fronte è totale. Domenica sera decine di giornalisti sono stati lasciati più di un’ora, a mezzanotte, sotto la pioggia, in attesa delle navette che li portassero in albergo. Impossibile rientrare in sala stampa, almeno per ripararsi: "Problemi di sicurezza". Stesso film nei giorni seguenti, con la tabella delle partenze delle navette completamente ignorata. E pazienza per chi deve andare in diretta, oppure ha prenotato un costosissimo slot satellitare per trasferire le immagini. Martedì mattina, ultimo giorno, la navetta è dispersa, l’autista introvabile. Due ore di ritardo sul programma. Ne restano vittime gli stessi giornalisti britannici, il cui autista si perde nella campagna e chiede un navigatore satellitare ai suoi passeggeri.
Capitoli costi. Va bene la crisi e la sobrietà, ma al G8 si paga tutto. Anche l’acqua minerale, all’astronomico prezzo di 12 euro al litro. Come una buona bottiglia di Chardonnay. Due caffè in sala stampa vanno via per 4 sterline e mezza: 5 euro e 30 centesimi. Tutto si paga doppio, a partire dalle stanze degli alberghi convenzionati con il G8, che fiutato l’affare hanno duplicato le rette. Alberghi peraltro lontanissimi, a volte cento chilometri, dall’area del summit. Il G8 britannico si chiude oggi con la spiacevole sensazione di essere stati munti come le numerose mucche che pascolano indifferenti oltre il perimetro della sala stampa.
(18 giugno 2013)

FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - Con una maggioranza che non lascia spazio a dubbi il Consiglio Nazionale, la Camera dei Deputati elvetica ha respinto la Lex Usa, un accordo con il Dipartimento della Giustizia americano concepito per salvare dalla rappresaglia dello Zio Sam 12 banche, accusate di aver aiutato migliaia di cittadini statunitensi a frodare il Fisco.

Contro l’accordo hanno votato 126 parlamentari, sia di destra che di sinistra, mentre 67 l’hanno approvato. Un vero e proprio rovescio per la Ministra delle Finanze, Eveline Widmer-Schlumpf, che ha lasciato l’aula visibilmente provata evitando i giornalisti. Widmer-Schlumpf confidava in questa soluzione, messa a punto dopo un estenuante negoziato, per evitare la messa al bando da parte degli Stati Uniti di diversi istituti di credito elvetici. "Abbiamo le prove per far fare, ad almeno cinque banche, la fine della Wegelin", la minaccia sventolata da un funzionario del fisco Usa il quale aveva evocato, non a caso, la sorte toccata ad inizio anno alla più antica banca svizzera, un istituto di San Gallo, costretto a chiudere per essere stato sorpreso a trafficare con conti cifrati intestati a cittadini con il passaporto a stelle e strisce.

Per evitare uno scenario del genere la signora Widmer-Schlumpf aveva portato a termine una trattativa che prevedeva il pagamento di una multa vicina ai 20 miliardi di dollari, da parte delle banche coinvolte ma, soprattutto, la consegna agli americani di una montagna di documenti sensibili. Ed è stata questa una delle ragioni per cui, ai deputati del Parlamento federale, è saltata la mosca al naso. "Se accettiamo questo accordo con gli americani creeremo un precedente e dovremmo, poi, fare la stessa cosa con l’Ue", ha tuonato stamane in aula il carismatico leader della destra, Christoph Blocher. E non è un caso se, proprio ieri, nella capitale svizzera Eveline Widmer-Schlumpf, incontrando il Commissario europeo alla fiscalità, Algirdas Semeta, si è sentita dire che in tema di fiscalità l’Ue vuole lo scambio automatico di informazioni. Ovvero i nomi dei propri cittadini, titolari di conti nelle banche svizzere. Il che significherebbe, in sostanza, la caduta definitiva del segreto bancario.

La sinistra non ha nessun problema a rinunciare al segreto bancario ma, nel dibattito sull’accordo con Washington, non ha mandato giù il fatto che, nella documentazione che il Governo elvetico intende trasmettere oltreatlantico, figurino i nomi di numerosi funzionari di banca e non invece quelli dei clienti. "Tocca ai clienti pagare, non ai bancari", ha dichiarato sdegnata, durante il dibattito, la deputata socialista Susanne Leutenegger Oberholzer. Cosa succederà adesso? Sicuramente i servizi segreti statunitensi continueranno ad infiltrare le banche svizzere, con l’obbiettivo di farle cadere una dopo l’altra, come birilli. Il caso della Wegelin, uno di quelli che ha dato il via all’offensiva americana, sta lì a dimostrarlo. Ed è iniziato dopo che un suo consulente è stato arrestato, negli Stati Uniti, con l’accusa di riciclaggio per aver ricevuto da una collaboratrice dell’Fbi una borsa contenente un milione di dollari ed un microfono, che ha registrato tutte le fasi del passaggio di denaro. Per evitare una pesante condanna l’uomo ha vuotato il sacco e per la banca Wegelin è suonata la campana a morto.
(18 giugno 2013)

PEZZO DI STAMATTINA DELLA STAMPA
MAURIZIO MOLINARI
Al summit del G8 è gelo sulla Siria fra Barack Obama e Vladimir Putin. Dopo quasi due ore di colloquio i presidenti di Usa e Russia si presentano ai reporter mostrando nervosismo. Entrambi hanno le mani incrociate, muovono i piedi in più direzioni e parlano a monosillabi. Le frasi iniziali sono quasi identiche. «Le nostre posizioni sulla Siria non coincidono» esordisce Putin. «Abbiamo opinioni diverse» gli fa eco Obama. La definizione delle coincidenza è ridotta al minimo. Per Putin: «Vogliamo porre fine alle stragi, una soluzione pacifica e desideriamo il negoziato di Ginevra». Per Obama: «Ci preoccupano le armi chimiche, vogliamo la fine delle stragi, continueremo a lavorare assieme». In sostanza Putin rifiuta la richiesta di cessare il sostegno al regime di Assad e Obama non fa marcia indietro sugli aiuti militari ai ribelli. I due leader parlano con formalità, non si guardano negli occhi, incarnano l’entità del disaccordo sulla Siria all’origine di un’impasse che impedisce al G8 di raggiungere l’intesa su una dichiarazione comune. Nel tentativo di limitare i danni, Putin parla di «cooperazione sulla sicurezza» e di «intesa per spingere l’Iran dopo il voto a rinunciare al nucleare» mentre Obama si sofferma sullo sport: «Lui mi ha parlato di judo, io di basket». Ma è il gelo fra loro che resta impresso a chi li vede e ascolta.
Si conclude così una giornata che vede la Siria al centro delle fibrillazioni, sin dal mattino. L’anfitrione britannico David Cameron si rivolge a Putin al suo arrivo: «La Russia deve capire che in Siria bisogna dare al popolo la possibilità di liberarsi dell’autoritarismo per scegliere un governo rappresentativo». La risposta arriva dal portavoce Cremlino: «L’Occidente pensa alla no fly zone, siamo contrari e senza il nostro assenso all’Onu sarebbe illegittima». Washington smentisce che la no fly zone sia in agenda, ma serve a poco.
Herman Van Rompuy, presidente dell’Ue, apre un altro fronte: «Entro la fine dell’anno i profughi siriani saranno 3,5 milioni» dunque siamo in emergenza umanitaria. I portavoci russi non ribattono neanche e quando Putin incontra il premier canadese Stephen Harper il disaccordo si palesa. «La Siria è governata da banditi, impossibile giustificarli» afferma il canadese. Il presidente francese François Hollande nell’incontro con Putin sottolinea «l’isolamento di Mosca». «Non capisco come fa la Russia a ritenere legittimo fornire armi a un regime che massacra il suo popolo» tuona Hollande.
La pressione di europei e canadesi su Putin è compatta, serve a preparare il faccia a faccia con Obama, al termine della giornata. Tocca a Obama porre Putin davanti alla richiesta di sottoscrivere un comunicato nel quale si auspica la «soluzione politica» con una «transizione» che significa l’addio al potere di Assad. È l’unica vera richiesta che Usa, Europa, Canada e Giappone sottopongono a Putin: dopo due anni e 93 mila morti è l’ora di cessare il sostegno al Raiss per consentire il successo di Ginevra 2, la conferenza fra esponenti dell’opposizione e del regime per «tenere unita» la Siria del dopo-Assad.
Ma è un dialogo fra sordi. Putin non arretra, ribadisce le accuse di «estremismo» ai ribelli e accusa l’Occidente di «miopia» per voler «gettare la Siria nel caos». Le foto scattate durante il colloquio mostrano l’americano che si porta la mano al mento mentre il russo lo guarda dall’alto in basso, quasi con supponenza. A Cameron non resta che trarre le conseguenze: «Siamo pragmatici, l’unanimità sulla Siria non c’è». In concreto ciò significa che Putin è convinto che Assad, con gli Hezbollah, può farcela a espugnare Aleppo entro dell’estate infliggendo al ribelli una sconfitta capace di ridisegnare il Medio Oriente. A capirlo sono i sauditi che gli fanno sapere: «Abbiamo iniziato a dare i missili anti-aerei ai ribelli».

PEZZO DELLA STAMPA SUL NOSTRO RUOLO IN LIBIA
ANTONELLA RAMPINO
Training per alcune migliaia di poliziotti e militari in Sicilia e Sardegna. Institution building, a partire da i codici civili e penali in versione attualizzata. Formazione e tecnologie per il controllo delle frontiere. E anche, per ora allo studio, un progetto-pilota per la riconsegna delle armi da parte di alcune fazioni, sul modello seguito in Mozambico, cui particolarmente tiene il ministro degli Esteri Emma Bonino. Sono le linee-guida del «piano per la Libia» che ieri Enrico Letta ha annunciato a Barack Obama, e di cui oggi ai margini del G8 parlerà con l’attuale capo del governo libico Ali Zidan. Un piano che coinvolge anche la Gran Bretagna, che parteciperà alla formazione delle forze di sicurezza su alcune isole britanniche. Al di là delle iniziative, per le quali i fondi sono già in bilancio della Farnesina, c’è anche una vera e propria road map politica: Zidan sarà a Roma il 4 luglio, e si spera che per quella data vi sia a Tripoli un governo saldamente in carica. A quel punto, partiranno delle bilaterali tematiche tra ministri - Interno, Giustizia, Esteri, Economia - in vista di una conferenza sulla Libia in novembre.
Il punto della Libia è la stabilizzazione, e la via - tutta da trovare - per una riconciliazione nazionale. La comunità internazionale, a cominciare da Italia e Stati Uniti, è consapevole della difficoltà dell’operazione. E dunque il compito che è affidato a Roma è eminentemente politico. Per ogni evenienza militare gli americani hanno già rafforzato la presenza a Sigonella, appositamente dotata anche di droni, oltre a quelli che possono già raggiungere la Libia dalle basi in Niger.
Ma quel «dateci una mano in Libia», secondo l’amichevole espressione usata da Obama con Letta ieri, e venerdì sera da John Kerry al telefono con Emma Bonino, indica proprio la necessità di occuparci di un Paese con il quale abbiamo una contiguità storica, oltre che geografica. A fronte di questo - par di capire - quale che siano le decisioni che verranno prese sulla Siria, all’Italia verrà richiesto solo un impegno umanitario.
E tuttavia «dare una mano», nel caso libico, è compito complesso. Zidan, per quanto sostenuto dalla principale coalizione parlamentare, l’Alleanza delle forze nazionali che è di qualche ispirazione liberale, è nella condizione di un premier incaricato per gli affari correnti, anche se l’Occidente sembra averlo individuato come interlocutore affidabile. Ma la transizione post-Gheddafi è segnata dallo scontro tra chi cerca la rivincita, e chi la riconciliazione. L’Afn è appunto piena di personalità che sono state contigue al regime, ma gli uomini della rivoluzione - che rifiutano di consegnare le armi - sono contrari a dare loro spazio . E naturalmente, la Libia è area di influenza italiana, e l’Italia è nata a suo tempo proprio su una riconciliazione nazionale. Chi meglio di noi può spiegarlo ai libici? O almeno, questo è quel che pensano gli americani.

MARCO ZATTERIN SULLA STAMPA
Il titolo lo propongono gli europei, dicono che è il «più grande accordo bilaterale della Storia». I numeri li mette Barack Obama, che attribuisce all’universo degli affari transatlantici la competenza per metà della ricchezza generata sul globo terracqueo, con un trilione di dollari di merci e servizi venduti ogni anno e quattro di investimenti reciproci, e 13 milioni di posti direttamente collegati. Cifre stellari che possono solo crescere una volta aboliti i dazi e le barriere agli scambi. «Altre centinaia di migliaia di posti di lavoro», stima il presidente americano, per un’intesa che non sarà facile. «Non perderemo di vista il premio finale - promette il capo della Commissione Ue, José Manuel Barroso -. E alla fine ce la faremo».
Erano tutti ottimisti ieri pomeriggio quando sono apparsi insieme sotto il tendone bianco a poche centinaia di metri da Lough Erne, il complesso alberghiero a cinque stelle dell’Irlanda del Nord dove è cominciato il vertice degli otto Grandi del pianeta. Senza cravatta e in camicia il padrone di casa, il premier britannico David Cameron, felice come una Pasqua. Alla sua destra Barroso, Obama, il presidente del Consiglio Herman Van Rompuy, che la giacca se la sono tenuta, alla faccia del clima informale della riunione. Giusto sorridere, almeno ora, «il confronto parte a Washington in luglio». Chiusura nel 2015. Si spera.
I due blocchi si studiano da sempre, hanno radici comuni e la tendenza a divergere. Nella rivoluzione degli assetti economici globali, hanno ripreso a guardarsi con interesse costruttivo, anche se quelli che possono scegliere sono gli States, che nel menu hanno una possibile alleanza con l’Europa - come sarebbe più naturale -, un rischioso G2 con la Cina, o ancora un blocco continentale con gli emergenti sudamericani. Al momento, Obama guarda solo oltreoceano e annuncia, «è una rivoluzione».
Certo è un’occasione da non perdere, un passaggio in cui l’Europa deve mantenere i nervi saldi, gli stessi che sull’eccezione culturale sono saltati. La Francia ha puntato i piedi e ha chiesto di tenere cinema e televisione fuori dal mandato negoziale. I partner europei glielo hanno concesso disperati per non bloccare il dossier. Alla Commissione, cioè in casa del negoziatore, l’hanno presa male e Barroso ha dato del reazionario a chi cerca di frenare l’economia globale.
La risposta di Hollande non si è fatta attendere. «Non posso credere abbia pronunciato quelle parole - ha replicato il presidente francese -. L’eccezione culturale è sempre stata fuori dai negoziati internazionali: non c’era bisogno di metterlo in questo». A Bruxelles la pensano diversamente, e hanno già detto che in un secondo tempo potrebbero cambiare idea. E’ una provocazione, visto che il dietrofront richiederebbe l’unanimità e, dunque, riaprirebbe la ferita in senso all’Unione.
Si può vincere se compatti, consapevole che l’America non esiterà a mettere qualche trappola sul percorso. Washington non ha definito il mandato, manca il sigillo del Congresso. Voci insistenti rivelano che potrebbero saltare i servizi finanziari, sebbene non sia noto se, e cosa, gli americani chiederanno in cambio dell’eccezione culturale. Più fonti ipotizzano i trasporti marittimi e la protezione geografica degli alimenti.
Non si deve cadere nella trappola.
La Transatlantic Trade and Investment Partnership, «Ti-Tip» come la chiama Obama, è una chiave necessarie per stimolare la ripresa. Lo è perché elimina i dazi, perché toglie le barriere agli investimenti e perché i titolari del mezzo pil planetario possono fissare gli standard. Un esempio. Se una ditta italiana fabbrica 20 mila t-shirt, metà per gli Usa e metà per il mercato interno, non può vendere negli States un eventuale residuo europeo perché l’etichetta per il lavaggio è diversa. Con regole omogenee, potrebbe spedire i capi a New York e oltre. Eviterebbe una perdita, magari guadagnerebbe. E farebbe contenti i consumatori a stelle e strisce.

INTERVISTA A GIANCARLO PADOAN
P

ier Carlo Padoan, il vertice G8 è cominciato sotto pessimi auspici, Hollande è arrivatoinfuriatoper lecritiche di Barroso all’indisponibilità francese a discutere le quote nazionali sugli audivosivi...

«La posizione della Francia è antica, ma un accordo transatlantico sul commercio sarebbe un’opportunità eccezionale, una spinta alla crescita e alla produttività importantissime, per l’Europa».

Ma non è giusto proteggere alcuni mercati? Lo fa l’Islanda con quello ittico – candidata ad entrare nell’Ue – e lo fa la stessa Ue con il tentativo di introdurre dazi antidumping contro i pannelli solari cinesi.

«Sono discorsi diversi. Il dumping va combattuto, è concorrenza sleale e va frenata. Altro discorso è la protezione di determinati mercati; ritengo che ogni Paese si debba aprire al mercato esterno, debba mostrarsi disponibile a riconvertirsi, cioè ad aprirsi e riadattarsi verso l’efficienza».

Cameron punta molto su un’intesa internazionale contro l’evasione fiscale, ma Russia e Canada frenano.

«Siamo a un passaggio importante che può consentirci di chiudere su un’intesa internazionale che cancelli finalmente il segreto bancario. Il fatto è che a causa del ritardo dei legislatori nazionali a tenere il passo con la globalizzazione, ci sono imprese che con operazioni sempre più raffinate sono riuscite a riallocare le attività in modo tale da non pagare più un centesimo di tasse. Questo è grave».

L’Italia ha posto ad Obama il tema, molto europeo, del lavoro.

«L’Italia si sta muovendo con grande determinazione, anche se ha margini ristretti a causa dei vincoli europei di bilancio. L’idea mi pare quella di iniziative su più livelli, nazionali ed internazionali, che abbiano lo stesso principio ispiratore: quello di migliorare le misure di accesso al lavoro ma anche di disporre risorse sia per il primo impiego sia per il ricollocamento dei lavoratori. In Europa la disoccupazione è in aumento ed è particolarmente grave, negli Usa sta cominciando a scendere. Tuttavia anche lì c’è un problema occupazionale e ritengo che l’amministrazione Obama, non vincolata a tetti ai disavanzi come i Paesi europei, dovrebbe investire maggiori risorse sulle politiche attive del lavoro».

Qualcuno comincia a guardare con preoccupazione invece alla prospettiva di un rialzo dei tassi di interesse negli Usa…l’Europa rischia di fare la fine del “vaso di coccio”?

«E’ vero, i tassi di interesse negli Usa stanno ricominciando a salire. Nell’interpretazione più benigna, perché le aspettative di crescita si stanno rafforzando. Nell’interpretazione meno benigna, perché i mercati si stanno innervosendo ritenendo che la Fed stia uscendo troppo presto dalla fase emergenziale. Dunque è vero che ci sono rischi di ripercussioni sull’Europa. Gli spread hanno cominciato di nuovo ad aumentare e si sta materializzando un nuovo elemento di rischio sistemico».

Non l’avevamo superato con le parole famose di Draghi sulla Bce «disposta a fare di tutto» per salvare l’euro?

«Sì è vero Draghi ha scongiurato il rischio di una disgregazione dell’euro ma in questo caso non siamo dinanzi a un rischio interno ma esterno e dunque più difficile da fronteggiare, per l’Europa. Non è un segnale di debolezza interna, ma di debolezza nei confronti degli Usa. Servirebbe, quindi, non lo scudo anti-spread, l’Omt, ma, nel momento in cui la Fed dovesse davvero cominciare a chiudere i rubinetti, la Bce dovrebbe avviare l’equivalente europeo di un quantitative easing, comprando titoli in modo illimitato».

I tedeschi non lo permetterebbero mai…

«Purtroppo il problema della liquidità c’è e apre una nuova fase nel continuo aggiustamento della - imperfetta - zona euro».

La spaventa il verdetto della Corte costituzionale tedesca sullo scudo antispread, attesa per l’autunno?

«Non è il problema. Il punto vero è a che punto è l’Unione bancaria. Mi preoccupa molto lo stallo sul fondo di risoluzione e sul fondo di garanzia. La supervisione non può andare avanti da sola».

MARCO ZATTERIN
La crescita non basta. Il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, spiega che «l’anno prossimo il pil europeo salirà dell’1/1,5% eppure sarà insufficiente a risolvere il problema dell’occupazione». Sempre ammesso che ci sia davvero, la ripresa, bisognerà che l’impulso virtuoso sia «sostenuto da misure nazionali». Servono per i giovani e chi un posto l’ha smarrito, devono sostenere chi perde la speranza, soprattutto alla luce dello scenario non roseo disegnato dai grandi della Terra, per i quali le prospettive economiche complessive restano «deboli» anche se «i rischi di caduta sono mitigati dalla azioni prese da States, Eurozona e Giappone».
L’esame congiunturale che ha occupato la prima metà del vertice G8 di Lough Erne, in Irlanda del Nord, regala all’Europa un comunicato da bicchiere mezzo pieno. Prima dell’avversativa di rito, i Grandi ammettono che nell’ultimo anno le possibilità di rivedere al ribasso le dinamiche dell’economia «sono diminuite». Poi, però, sottolineano che il club della moneta unica «è ancora in recessione» e in mezzo al guado. E chiedono che la politica di bilancio consenta flessibilità di breve termine. «Il ritmo del consolidamento deve essere differenziato a seconda delle circostanze nazionali». Anche la cancelliera Angela Merkel ha firmato il testo. Nella campagna dell’Ulster rappacificato, con pochi e pacifici manifestanti altermondialisti venuti sin quassù a protestare contro i troppo ricchi, gli europei si sono ritrovati a guardare con un po’ di invidia al buon funzionamento del modello americano. «L’economia Usa continua nella ripresa - scrive il G8 nel suo comunicato - e il deficit continua a scendere rapidamente in un contesto che richiede altri progressi verso una sostenibilità di medio termine e investimenti mirati per spingere la crescita». Da questa parte dell’Atlantico non si può fare molto di meno. Concede il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, «che la crisi è ancora lì ma è diversa». La croce è la crescita debole e la disoccupazione drammatica, eppure il portoghese sostiene che grazie al risanamento di questi anni si può guardare avanti con ottimismo: «I governi hanno fatto cose che non sarebbero successe altrimenti». Van Rompuy aggiunge «abbiamo salvato l’Eurozona», e che la prossima tappa è la definizione dell’Unione bancaria, che il G8 reputa cruciale. «Prima della fine della legislatura parlamentare nel 2014 avremo la vigilanza unica».
La ricetta dell’Europa, così come la mette Barroso, contempla che «chi ha un surplus di bilancio favorisca la domanda» e «chi ha incertezze si occupi della competitività». E’ lo stesso tono del comunicato . Vuol dire che Berlino deve spendere e Italia e Francia devono fare le riforme, cosa che Letta ha nuovamente confermato. Si percepisce un’aria di maggior flessibilità che potrebbe contagiare, nei giorni che portano al vertice Ue di fine mese, anche i più falchi. Mettiamo che oggi gli Otto facciano un passo sull’evasione e recuperino gettito con lo scambio dei dati delle multinazionali, come vuole Cameron. Resterebbero 10 giorni per coordinare le «misure concrete» per salvare i giovani dalla disoccupazione e le imprese dalla stretta creditizia. Occasione da non perdere. Lo pensa anche il G8.

GAGGI SUL CORRIERE DELLA SERA

A UNO DEI NOSTRI INVIATI

LOUGH ERNE (Irlanda Del Nord) — «Oggi Stati Uniti e Unione Europea annunciano l’avvio ufficiale del negoziato per l’accordo che dovrà creare un’unica area di libero scambio attraverso l’Atlantico. Parliamo di intese commerciali che non sono importanti in sé, ma in quanto promuovono la crescita e il lavoro. E con questo patto noi potremo sostenere 13 milioni di posti di lavoro sulle due sponde dell’oceano». Barack Obama arriva al G8 nel resort di Lough Erne, in Irlanda del Nord, e definisce la cornice degli obiettivi economici del vertice prima di immergersi nel difficile confronto sul conflitto siriano col presidente russo Vladimir Putin.

Il leader americano si presenta alla stampa insieme al premier britannico David Cameron, il padrone di casa, e ai capi della Commissione e del Consiglio europeo, Manuel Barroso e Herman Van Rompuy, poco dopo aver incontrato il primo ministro italiano Enrico Letta che gli ha parlato soprattutto dell’emergenza lavoro giovanile. Argomento sul quale il presidente Usa, che l’anno scorso ha condotto una campagna elettorale tutta centrata sulla creazione di posti di lavoro, è sensibilissimo. Obama ha assicurato a Letta che nella riunione plenaria di oggi parlerà diffusamente dell’emergenza-giovani, ma già ieri sera ha voluto fissare gli ambiziosi obiettivi di un patto che, ha detto, dovrebbe unificare due aree — Usa e Ue — che rappresentano ancora oggi — e di gran lunga — la maggiore realtà commerciale del Pianeta: ogni anno queste due aree si scambiano beni e servizi per mille miliardi di dollari mentre gli investimenti americani in Europa e quelli europei negli Usa sono arrivati all’astronomica cifra di quattromila miliardi.

Numeri giganteschi, buoni propositi, frasi enfatiche: per Cameron siamo davanti a un’occasione unica, una di quelle che capitano una volta in una generazione, per «mettere il turbo alle economie transatlantiche». Per Van Rompuy questo accordo dimostrerà che l’Atlantico non è solo il passato ma anche il futuro del mondo.

Dietro alle buone intenzioni, però, c’è la realtà dei tempi prevedibilmente lunghi della trattative e del suo avvio assai stentato. Il negoziato, proposto solennemente cinque mesi fa proprio da Obama nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, ha rischiato di non arrivare nemmeno sulla pista di decollo per il veto minacciato dalla Francia. Per superarlo e ottenere il via libera di Parigi all’avvio della trattativa, qualche giorno fa gli altri partner della Ue hanno dovuto accettare la cosiddetta «eccezione culturale»: l’esclusione delle produzioni cinematografiche e televisive e, più in generale, di tutto il settore degli audiovisivi, dall’area di liberi scambio.

Un compromesso che ha lasciato l’amaro in bocca a molti anche in Europa (ieri lo stesso Barroso ha definito «reazionaria» l’eccezione culturale voluta dai francesi) e che potrebbe non essere accettato dagli Stati Uniti.

Difficoltà che non sono state nascoste nemmeno da Obama che ieri, nel lanciare il negoziato, ha anche avvertito che «non si deve cedere alla tentazione di ridimensionare i suoi obiettivi ambiziosi per evitare di affrontare le difficoltà e per il desiderio di arrivare a un accordo comunque».

Insomma abituatevi a sentir parlare in futuro di Ttip, la sigla della Transatlantic trade and investment partnership: i negoziati sono molto importanti, ma saranno anche lunghi e complessi. Così come complesse saranno le trattative per dare contenuto in ogni Paese alle misure per la trasparenza fiscale e contro l’elusione delle multinazionali che evitano di pagare le tasse parcheggiando i loro profitti nei paradisi fiscali. Interventi propositi dal presidente del G8 Cameron e che gli altri Paesi, dopo alcune esitazioni iniziali, sembrano disposti ad accettare, ma solo come principi generali inseriti nel comunicato finale del vertice che poi ogni Paese applicherà a modo suo.

I mercati, che cercano sempre di anticipare gli eventi che ieri hanno regalato alle Borse una giornata molto positiva, non sono stati influenzati dalle promesse dei leader politici del G8 ma dalle attese legate a un altro vertice: quello dei governatori della Federal Reserve che si riuniranno a Washington oggi e domani. Si è diffusa l’attesa che il loro capo, Ben Bernanke, dopo aver seminato qualche dubbio in un discorso del 22 maggio scorso sul proseguimento delle politiche di sostegno all’economia fin qui seguite dalla banca centrale Usa (tassi a zero e acquisto di 85 miliardi di dollari di titoli del Tesoro e obbligazioni immobiliari ogni mese) chiarisca il suo pensiero e rassicuri gli operatori. Un mese fa Bernanke era sembrato ipotizzare una revisione di queste generose politiche di sostegno, alla luce del consolidarsi della ripresa americana. Ma il quadro economico mantiene una sua fragilità di fondo: la Fed sarebbe orientata ad assicurare che le correzioni di rotta saranno molto graduali e inizieranno solo davanti a una situazione ben più solida di quella attuale.
Massimo Gaggi