Alessandra Retico, La Repubblica 17/6/2013, 17 giugno 2013
L’ADDIO DI LO CICERO RUGBISTA CONTADINO “MI DEDICO AGLI ASINI”
ROMA Con quel baffetto da barone, il corpo maciullato dalle mischie, s’è messo a fare il fattore. Cinque asini presi a Ragusa e portati a Nepi vicino Viterbo. Per fare filosofia: «Sono animali che hanno servito eserciti e famiglie, adesso sono dimenticati. Come il rugbista». Il pilone sinistro Andrea Lo Cicero chi se lo scorda, 103 presenze in nazionale, come lui nessuno mai. Ha 37 anni e la voglia pazza che non finisce se sei cresciuto a spallate. Ha strusciato la testa su mille magliette, ha l’orecchio destro a cavolfiore, cucito, tamponato, incerottato troppe volte. «Rifarei tutto ». Ha lasciato il campo, l’azzurro, una vita con l’ovale: «Nel pieno delle mie forze, al culmine della forma, nel momento migliore del rugby, in quello peggiore per il paese». Due mesi fa l’ultima partita con la nazionale al Sei Nazioni, quella vinta contro l’Irlanda, quella che sono state lacrime, singhiozzi e una paura che Andrea prima non conosceva: «Sono disoccupato. Non ho una pensione. Ho fatto il mio dovere come sportivo, ho rispettato lo stato, ho pagato le tasse, non ho avuto niente in cambio». Un asino.
L’altra sera era al Circolo Canottieri Aniene a Roma, quello del presidente anche del Coni Giovanni Malagò e per cui gareggia Federica Pellegrini. Andrea è un ex atleta della società, come lo erano la ministra Josefa Idem e la donna del vento Alessandra Sensini che adesso lavora dietro un tavolo, in federazione e al Coni. Tutti alla loro seconda vita, per capire quella degli altri. Una serata per parlare della fondazione Tender to Nave Italia, una onlus della Marina e dello Yacht Club Italia che usa un grande veliero armato a brigantino, la Nave Italia, per portare a bordo ragazzi e adulti con disabilità mentali. «Sono stato fortunato nella vita, è mio dovere restituire quello che ho avuto a chi non ne ha». Per questo ci ha messo la sua facciona, per questo nella sua tenuta di 12 ettari nelle campagne del Lazio Andrea costruisce una fattoria didattica che ha chiamato la Terra dei bambini, onlus anche questa cui si può donare il 5 per mille. Per insegnare ai ragazzi l’umiltà, il piacere di toccare, la ruvidità delle cose: «Sto facendo un percorso di trekking, ci porterò i bambini delle scuole ma anche gli adulti in groppa agli asini, senza sella, per fargli sentire la bellezza del contatto, la lentezza del cammino, la costruzione di un percorso. La chiamano onoterapia, per chi ha problemi fisici e mentali. Ma io dico che gli asini fanno bene a tutti. Ti migliorano la vita, a me l’hanno cambiata. Con loro mi inventerò un futuro che mi capita adesso, non dico all’improvviso, ma ti scombussola parecchio lasciare tanta pienezza di vita, le città, il bel mondo, per un pezzo di terra. Quello che ho fatto adesso è un pugno di sabbia».
Gli è sempre piaciuta, la terra. Ci giocava da bambino a Catania, nel campo secco e arso di lava davanti al suo condominio, l’Etna di fronte. Ci è cresciuto nelle zolle secche, ci affondava le gambe: «Ero grosso, non entravo neanche dentro il banco di scuola, mangiavo come un orco, mi chiamavano ciccione ed era una cosa che mi feriva. Ma nelle ore fuori, in quel cortile infinito di fronte casa, ho imparato a mettere su la forza, ad amare il rumore e l’odore del campo». È nato sotto il segno del Toro, ovvio, il rugby glielo ha fatto conoscere il suo professore di educazione fisica alle superiori, era un pomeriggio in Sicilia, era una partita che lo fulminò: «Divenni immediatamente pilone». La squadra di città, l’Hobby sport Battiati, serie C, l’esordio in serie A all’Amatori, a 16 anni. Poi Bologna, Rovigo, Roma, Tolosa, Roma ancora, l’Aquila e infine in Francia, al Racing Metro 62, ultima squadra, fino a qualche giorno fa. «E adesso magari mi metto a fare il muratore. Qualsiasi lavoro, se dignitoso, ti fa stare bene. E il lavoro a me non mi schifa». A lui che ha antenati nobili, da cui il soprannome Barone («ma antenati molto, molto lontani»), genitori benestanti, un padre medico, una sorella psicologa («lavoreranno con me, gratuitamente »), l’umiltà non lo imbarazza: «Dobbiamo ricominciare da zero. Le finanziarie ci hanno ucciso, questa società ci ha rincretiniti: tutti vogliono il lusso, l’auto e i jeans firmati, qualcosa che non c’è e che non ti colma. Dobbiamo riportare nella società un po’ di umiltà, il senso del concreto. Ricostruire il tessuto sociale, ripartire dai giovani. Ho lasciato il rugby perché io il mio sport lo amo: per fare spazio a quelli dietro di me, per dare occasioni di crescere ai ragazzi che se lo meritano. Non è stato facile e indolore dopo 14 anni in azzurro. Ma se stai lì a ingombrare con la tua stazza il cammino degli altri, che fine faremo? Dovrebbero farsi da parte anche i politici, è così semplice da capire».
Specie se è tutto rotto, devi spingere. «Cinquantacinque punti in testa, di cui ventuno solo a un orecchio. Sei dita rotte. Quattro costole. Un gomito. Spalle lussate a volontà e una clavicola fratturata. Distorsioni varie alle gambe. Un collaterale rotto e una sublussazione del ginocchio. Uscite dal campo per infortunio: nessuna ». Così ha raccontato nella biografia (Il Barone) scritta con Paolo Cecinelli. «Una marea di infortuni ma ho sempre giocato. In mischia bisogna lottare, andare avanti, essere ottimisti e risollevarsi anche se abbiamo tante macerie addosso». Come fa l’asino, e il rugbista.