Giancarlo De Cataldo, La Repubblica 17/6/2013, 17 giugno 2013
PRIMO ROMANZO CRIMINALE
I sicari di Trastevere di Roberto Mazzucco, romanzo ripescato dall’editore Sellerio a oltre vent’anni dalla scomparsa dell’autore, che fu drammaturgo, critico e anche sceneggiatore (quando c’era solo la Rai, esistevano due “canali” e la fiction si chiamava, appunto, “sceneggiato”), è un piccolo gioiello di forza narrativa e un crudele apologo sul degrado italiano di ieri e di sempre. E non mente il risvolto di copertina quando evoca l’ormai abusato brand di “romanzo criminale”: questa storia di sangue, politica, sesso e tradimento in cui Strada e Palazzo si confondono sotto il segno della violenza e dell’interesse è davvero il primo “romanzo criminale” dell’Italia post-unitaria. Siamo a Roma, ovviamente. E’ il 1875.
Da quindici anni l’Italia è finalmente una nazione unita. La Sinistra storica si appresta a succedere alla Destra storica. Tutto appare “storico”, nel fresco regno di Vittorio Emanuele. Ma non è altro che retorica. L’ideale è morto, non sopravvivono che la propaganda e gli affari. La Destra ha governato con il pugno di ferro, facendo del pragmatismo il proprio credo. E’ ora di cambiare. La Sinistra si ammanta di utopia, e intanto scalpita per fare cassa.
Affari. Affari. Quarto e Volturno, Calatafimi e l’Aspromonte sono acqua passata. Ciò che conta è solo arricchirsi, e a qualunque costo. Mazzini ha da poco tolto il disturbo, insalutato ospite di una nuova Italia che non ha mai amato il suo rigore e il suo estremismo. Garibaldi è l’icona ingessata di un’utopia scolorita: il Generale pontifica, e intorno a lui si ruba a man bassa. La corruzione gli è entrata in casa, ma gli Eroi, si sa, non si curano delle minuzie. Di questo paese che prospera nella memoria fasulla di un’epica distorta, Roma, la nuova capitale, è, a un tempo, riserva di caccia per avidi trafficanti e metafora esemplare.
Tutto comincia con un cadavere eccellente. La sera del 6 febbraio, sabato grasso di carnevale, Raffaele Sonzogno, erede della celebre dinastia lombarda, viene accoltellato a morte in via De’ Cesarini, a due passi da Piazza Navona, nella redazione de La capitale, il giornale che da anni dirige con piglio battagliero. Il killer risponde al nome di Frezza Pio, di anni ventisei, “inteso Spadino”: per la scavata magrezza da tubercolotico, secondo il costume romanesco “di strada” del nomignolo descrittivo. Un piccolo delinquente trasteverino che, colto dal panico, invece di fuggire si lascia docilmente ammanettare. Appare subito chiaro che Spadino non ha fatto tutto da solo. Che dietro di lui c’è qualcuno. I complici vengono presto individuati: una scalcinata banda di coatti, teste calde, miserabili gatti di vicolo che se la sfangano fra furti e lavoretti e che affermano di aver voluto punire un nemico del popolo.
Sonzogno nemico del popolo? Sonzogno, l’estremista di sinistra, il puritano calato dalle nebbie padane per ripulire, a suon di denunce, la capitale corrotta? C’è qualcosa che non torna. Ne è consapevole il giovane e spavaldo cronista Filandro Colacito, che di Sonzogno aveva fatto il suo dio personale, e ne sono consapevoli, fra gli investigatori, quei pochi uomini onesti che ancora si ostinano a credere che la Legge sia più importante della ragion di Stato. Che i “sicari di Trastevere” siano responsabili del livello esecutivo dell’azione non si può dubitare.
Ma chi li ha scatenati contro Sonzogno? A chi dava fastidio Sonzogno? Il fatto è che su Roma sta per abbattersi una colata di cemento. E cemento vuol dire denaro e potere. Tanto denaro e tanto potere. Sulla carta, fra il Regno e la Chiesa, millenaria padrona di Roma, è guerra aperta. Il Papa se ne sta chiuso in Vaticano saettando scomuniche, e le leggi laiciste di Cavour e dei suoi successori hanno sottratto ai preti immense proprietà. Almeno, questo è ciò che appare. In realtà, a vescovi e monsignori è stato consentito di vendere un attimo prima dell’esproprio, ed è sul futuro di quelle terre che si gioca la partita decisiva: cemento e potere, appunto.
Sonzogno ha fiutato qualcosa. E’ riuscito a convincere Garibaldi a rinunciare al nefando progetto di deviare il corso del Tevere, e con la sua coraggiosa e aggressiva campagna rischia di mandare a monte la colossale speculazione edilizia. Peggio: di influenzare le imminenti elezioni politiche. Ed è oltretutto, da testardo combattente, sordo a pressanti raccomandazioni e amichevoli suggerimenti. Sono molti, dunque, i nemici di Sonzogno: gli uomini della Sinistra che pregustano la vittoria, i banchieri bipartisan che elargiscono fondi a pioggia, i costruttori impazienti di aprire i cantieri.
Vogliamo definirli i poteri forti del tempo? Perché no. E quando i poteri forti trovano sulla propria strada un ostacolo imprevisto, se ne sbarazzano. Tanto, i sicari, si sa, a Trastevere non mancano. E una volta presi loro, tutto dovrebbe finire. Ma quello di Sonzogno è un cadavere troppo eccellente. E la voce degli onesti, per quanto flebile, riesce ancora a echeggiare dalle parti del Quirinale. I rumors sfiorano pericolosamente la cerchia degli intoccabili: fra tutti, il Figlio. Uno dei rampolli di Garibaldi: si vocifera sia sommerso dai debiti di gioco e ansioso che l’affare immobiliare si concluda.
Ed ecco che, capolavoro politico, alla Giustizia viene dato in pasto, finalmente, un colpevole altrettanto eccellente quanto la vittima. Si chiama Giuseppe Luciani, già enfant-prodige delle lotte risorgimentali, eroe della liberazione nazionale, intimo di Giuseppe Garibaldi, già adepto di Sonzogno e, udite udite, amante della di lui consorte. Il delitto, da crimine di politica sporca, degrada dunque a vicenda di odio personale, un miscuglio di rancore e corna che offre a tutti la soluzione ideale. Compresi sbirri e magistrati fin troppo consapevoli del contesto.
Annota Mazzucco, sconsolato: «Insomma, chi svelava un reato o un intrallazzo correva maggiori pericoli di coloro che lo commettevano». Eccellente e dolorosa epigrafe per la Roma di ieri e di sempre.