Filippo Ceccarelli, La Repubblica 17/6/2013, 17 giugno 2013
CAMICIA E GILET IL POTERE CASUAL
IN MANICHE di camicia: alé, eccone un altro, Enrico Letta. Con tale inesorabile uniforme, ma senza rinunciare a quel segno di rispettabilità maschile che resta pur sempre la cravatta.
Così il presidente del Consiglio ha presentato l’altro giorno nella sala stampa di Palazzo Chigi il pacchetto “del fare” (espressione eminentemente berlusconiana e di recente rilanciata da Briatore).
E va bene, fa caldo, è estate. Ma nel gran teatrino del potere, forse proprio perché quei provvedimenti sono ancora allo stato teorico, il nuovo premier ha inteso trasmettere con la sua camicia un messaggio di spontaneo dinamismo e risoluta operosità. Il fatto che al suo fianco fosse in esposizione la grisaglia di Alfano ha reso più intenso il segnale.
La politica sta attenta a queste cose che c’entrano poco con la soluzione dei problemi, ma parecchio con lo stile dei leader. Letta, che ieri — indossando un gilet casual sopra la camicia — ha mostrato di voler conciliare l’impegno internazionale del G8 di Belfast con il concerto per il cinquantenario dei Nomadi a Cesenatico, non è il primo, né sarà l’ultimo a coltivare questi tratti distintivi che risultano frivoli e al tempo stesso terribilmente seri.
Per quanto attiene allo smanicamento autoaffermativo, data ormai un quarto di secolo essendo stato inaugurato da Claudio Martelli a Rimini nella seconda metà degli anni ottanta. Camicia bianca e pizzi del colletto rialzati, per la precisione. Seguì un’interminabile filastrocca di fervidi scamicianti alla ricerca di un’immagine meno ingessata: vedi il Craxi congressuale con sfortunata canotta in trasparenza; poi il Maroni da Viminale con discutibili piedi sulla scrivania; quindi il Berlusconi da esibizione imperiale con Apicella; fino al povero Monti, l’uomo del loden, che a Camp David fu costretto a togliersi la giacca su caloroso invito di Obama.
E tuttavia, come spesso capita, è qui in Italia che il carosello della camicia di potere, con la dovuta ricaduta autopromozionale, si fa più appariscente e insieme più contagioso, specie a sinistra, e il pensiero corre alla campagna di Bersani, che lo ritraeva appunto sopra lo slogan “Rimbocchiamoci le maniche”; come pure alla performance di Renzi che unico si presentò al dibattito delle primarie su Sky in camicia; e in quel frangente commentò lo storico bersaniano Gotor che il sindaco di Firenze sembrava “un conduttore dei ‘Pacchi’”, mentre l’intellettuale renziano Giuliano da Empoli da un lato relegò la faccenda a un fatto di confort, ma dall’altro fece osservare che la camicia “marcava un differenza che c’è in tutto, nel modo di parlare, di pensare, di presentarsi in pubblico” — mentre Berlusconi si limitò a rilevare un “effetto candeggina”.
Il rivendicatissimo giubbottino di Renzie-Fonzie era di là da venire. E non è per mettere zizzania, ma dopo che Letta, alla finta abbazia di Spineto, ha offerto in visione ministri con golfini e felpette, la competizione anche estetica tra i due galletti del Pd s’impenna, ma in qualche misura pure si abbassa e un po’ fa ridere.
E’ lecito e forse anche doveroso sostenere che la politica non dovrebbe occuparsi di queste minute futilità, e che il giornalismo sbaglia a inseguirle con scrupolo degno di miglior causa. Sennonché nell’universo immaginario dei simboli, come in quello meno astratto dei consumi e degli accessori, pare di scorgere un potere che per reazione, paura o prudente istinto di sopravvivenza, comunque cerca di alleggerirsi e di dare una rappresentazione di sé rinunciando a orpelli, protezioni e vistosi benefici.
In questo ciò che sta accadendo parallelamente anche nella Chiesa (il neo francescanesimo, il crocifisso di acciaio e le scarpine rosse di Ratzinger, la polemica su Cristo che vestiva Armani) sembra indicativo se non altro di un clima che va lasciandosi alle spalle orgie, trame e altre cattive abitudini.
Poi sì, certo, rispetto alla dura realtà la camicia della buona volontà lascia non solo il tempo che trova, ma addirittura quello che dissennatamente ha perso. Con il che, anche se è un colpo basso, si fa presente che nell’inchiesta Penati, spulciando certe spesucce di una fondazione battezzata “Fare Metropoli”, risultano versati 4.700 euri (pubblici) a uno studio fotografico per due “ritratti istituzionali — si immagina del medesimo Penati — in maniche di camicia e cravatta”. E allora vabbè, l’abito non fa il monaco, ma questo già si sapeva.