Mario Deaglio, La Stampa 18/6/2013, 18 giugno 2013
UN MOSTRO FISCALE DIVIDE IL G8
Negli Anni Ottanta e Novanta le riunioni del G8 si tenevano nelle grandi città o nelle loro immediate vicinanze: i governi ospitanti erano fieri di mostrare le bellezze di Tokyo, Londra, Venezia, Toronto. Con l’aumento mondiale delle tensioni sociali - e dei divari nella distribuzione dei redditi - queste riunioni tra grandi si svolgono ormai in luoghi isolati, difficili, se non impossibili da raggiungere da parte di manifestanti ostili. Così è per Lough Erne, incantevole e sperduta località dell’Irlanda del Nord il cui nome, secondo la leggenda, ricorda una bella dama che vi cercò rifugio, terrorizzata da un gigante uscito da una caverna.
Gli otto capi di governo che partecipano all’incontro, nella quiete del lago e dei boschi, sfuggendo alle folle, hanno probabilmente potuto, guardandosi negli occhi, individuare anch’essi una comune paura.
Il «gigante» che sta loro davanti ha contorni indefiniti, talvolta assomiglia a un insorto siriano, dalle intenzioni incerte e insondabili; talaltra a un giovane di un Paese ricco che non riesce a trovar lavoro, non lo cerca più, non studia e non vota; talaltra infine a una grande società che paga somme enormi ai propri dirigenti e somme bassissime al fisco degli Stati in cui opera.
Sulla Siria gli otto grandi non potranno probabilmente far altro che registrare la propria divergenza, specie dopo l’altolà russo all’istituzione di una «no-fly zone» a protezione degli insorti; su disoccupazione e libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea si stanno spendendo nobili parole, intrise di retorica (come i 30 milioni di nuovi occupati in Occidente, promessi dal Presidente Obama) mentre in realtà nessuno sa bene come muoversi; sulla lotta all’evasione fiscale delle grandi società, in particolare quelle finanziarie, invece, è possibile che ci siano sviluppi concreti e importanti, anche al di là dei comunicati ufficiali, tradizionalmente laconici.
E questo perché in molti Paesi avanzati si sta verificando un rapidissimo cambiamento di umore popolare contro le multinazionali che fanno uso di «schemi fiscali creativi» ossia, per dirla in italiano schietto, che non pagano le tasse che dovrebbero. La Apple, molto popolare per i suoi prodotti, è accusata di aver sottratto al fisco americano ben 74 miliardi di dollari in quattro anni; una cifra del genere porterebbe l’Italia molto avanti sulla via del risanamento ma nemmeno il governo degli Stati Uniti la disprezza, stretto com’è da vincoli alla spesa stabiliti da un Parlamento ostile.
Alla Apple si contesta che tutte le sue operazioni europee vengono gestite da una società irlandese priva di dipendenti e che il grande produttore dell’iPad paga all’Irlanda – in forti difficoltà economiche – imposte pari ad appena il due per cento degli utili, a seguito di un accordo fiscale. Qualcosa di simile avrebbe fatto anche Google, accusata di aver realizzato in Gran Bretagna utili per 18 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2011 e di aver pagato appena 16 milioni di imposte. Un lungo elenco di altre imprese, che comprende Vodafone, il gigante dei telefonini, e Starbucks, grande catena mondiale di caffè e bar, si trova in situazioni analoghe. Tutti si difendono dicendo di aver rispettato le regole, ma sono proprio le regole a essere scandalosamente inadeguate e dal G8 potrebbe derivare una rapida spinta a un cambiamento coordinato a livello globale.
All’elusione/evasione fiscale si intrecciano le pratiche illecite in campo finanziario. Un anno fa si scoprì che il tasso Libor, uno dei cardini del mercato finanziario mondiale, era tranquillamente manipolato da un gruppo di poche grandi banche. L’amministratore delegato della Barclays Bank si dimise subito ma questo non fece altro che togliere il coperchio al vaso di Pandora; un lungo elenco di grandi banche internazionali accusate di frode fiscale o riciclaggio.
Naturalmente tutta quest’attività, al limite del lecito o dichiaratamente illecita, fa aumentare i profitti delle grandi imprese globali, il che si riflette sulla retribuzione dei dirigenti e sull’aumento del valore delle azioni, base frequente di calcolo dei «bonus» dei dirigenti stessi. Si comprende così come sia possibile, negli Stati Uniti e in altri Paesi, che singole persone ricevano, in anni fortunati, anche più di un miliardo di euro in pagamento delle loro prestazioni, il più delle volte riuscendo a pagare pochissime imposte.
E ancor di più si comprende come una situazione di questo genere sia intollerabile mentre la disoccupazione si diffonde a larghissimi strati sociali, ai quali si chiede una serie di maggiori sacrifici fiscali: potrebbero sentirsi presi in giro e agire di conseguenza. Ecco allora il premier britannico chiedere un’azione coordinata che conduca a nuove regole anche se gran parte dei «paradisi fiscali» che andranno posti sotto controllo battono bandiera inglese, e il presidente francese annunciare un inasprimento della normativa.
Un coordinamento internazionale della legislazione fiscale che metta un freno a un’anomala distribuzione di redditi di questo tipo è forse l’unico risultato effettivo che ci si può attendere dal G8 convocato sul lago che fu rifugio di una dama spaventata da un mostro. Sempre che i leader di questi otto Paesi siano essi stessi sufficientemente spaventati dai nuovi «mostri» che si agitano a casa loro; il loro spavento sarebbe, in ogni caso, un bene per tutti.