Laura Anello, La Stampa 17/6/2013, 17 giugno 2013
IL GIALLO DELLA BARCA DA PESCA E IL BUSINESS DEL SUSHI PIÙ PREGIATO
Uomini e tonni, trascinati insieme in un corteo di morte tra Africa e Sicilia. Le rotte della disperazione e degli affari intrecciate nello stesso triangolo di mare, nello stesso angolo di mondo. «Sette, ne sono annegati sette», hanno raccontato i 95 migranti che ieri sono arrivati a Lampedusa a portare la notizia delle ultime vittime dell’esodo. «Ma no, erano almeno dieci», ha aggiunto un ragazzo, contando i morti sulle dita delle mani, facendo appello al ricordo confuso di paura, di onde, di grida. Sette sicuri, forse di più. Tutti eritrei. Caduti in acqua e aggrappati disperatamente ai galleggianti delle grandi gabbie che trasportano i giganti del Mediterraneo verso il macello. Uomini e pesci, insieme. I primi a stare a galla per vivere. I tonni a dibattersi disperatamente nelle reti, come a ribellarsi al destino di morte.
A trascinare gli uni e gli altri, il peschereccio tunisino «Khaked Amir», che viaggiava a 85 miglia a Sud di Malta molto lentamente – tre, quattro nodi – per non perdere il carico prezioso destinato al mercato dei sushi giapponesi a cinquecento dollari al chilo. A un tratto il silenzioso ritmo della navigazione è stato rotto da urla e imprecazioni di aiuto. «Hanno cercato di salire a bordo, li hanno respinti», hanno raccontato i testimoni sbarcati nel porto dell’isola che già scoppia di migranti e si prepara ad accoglierne di nuovi.
Era già successo che i disperati dell’Africa si trovassero a combattere per la vita accanto ai giganteschi pesci dalle pregiate carni rosse, in quel tratto di mare tra l’Italia, Malta e la Libia dove si cattura il 70 per cento del tonno del Mediterraneo. Il pesce viene catturato con le reti da tonnare volanti – navi enormi con reti lunghe fino a tre chilometri - durante la stagione della riproduzione, quando sta in superficie carico d’uova. Una parte viene uccisa subito, altra parte portata lentamente verso le vasche di stazionamento e ingrasso, come spiega il biologo marino Franco Andaloro, uno delle massime autorità sulla caccia all’oro del mare. Tutto tra maggio e giugno, quando il Mediterraneo brulica per l’attività più redditizia dell’anno. Ecco perché tante reti mobili e fisse, ecco perché tanti pescherecci a solcare il mare che nello spesso periodo torna a riempirsi di carrette di migranti.
A maggio del 2008 erano stati ventisette somali a restare aggrappati per giorni ai galleggianti mentre le autorità internazionali si rimpallavano la responsabilità del recupero. Una vergogna che fece il giro del mondo. Tempi in cui il vicesindaco Angela Maraventano, la leghista più a Sud del Paese, si metteva provocatoriamente il chador a denunciare l’invasione. Adesso qui a Lampedusa ci sono le parole di solidarietà del primo cittadino Giusi Nicolini ad accompagnare l’ennesima tragedia. Solidarietà e preoccupazione, perché il centro di accoglienza con soli trecento posti già scoppia con 540 ospiti stipati a fatica, «e questa – ripete ancora una volta – non può tornare a essere l’isola dell’abbandono». I tempi cambiano, ma il cortocircuito resta, aggravato dalla crisi.
«Dal peschereccio a un tratto hanno tagliato le corde che trascinavano le reti, così i nostri fratelli sono andati giù», ha aggiunto un superstite agli inquirenti. «Ma no, sono stati loro a cercare di slegare le corde per fermare la barca», ha raccontato un altro. Gli inquirenti valutano i racconti con attenzione e prudenza. Perché le reti non affonderebbero, anche se le corde venissero recise. Ed è difficile pensare che un naufrago in preda al panico abbia la lucidità e la forza di mettere a punto una strategia. Certo è che in quello spicchio di mare si è consumata l’ennesima guerra tra disperati. Disperati loro, i migranti in cerca della terra promessa. Ma disperati pure i pescatori, che combattono la crisi mettendosi a servizio dei colossi che gestiscono il business del tonno. Ai tempi di Gheddafi, uno dei figli del dittatore gestiva l’attività, lontano pure dai controlli severi delle autorità internazionali sul rispetto delle quote di pesca. Sono gli equipaggi tunisini, ma anche siciliani, a trasportare il carico dal luogo di cattura alle vasche di stazionamento e di ingrasso. Dovrebbero farlo rimorchiatori attrezzati ad hoc, ma il bisogno ha mosso anche loro. Impauriti, stanchi. Forse tanto da temere anche sette naufraghi che chiedono aiuto.