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 2013  giugno 16 Domenica calendario

IL NUOVO MONDO SFIDA IL G8

Nel 1945 gli Stati Uniti producevano dasolioltrelametà della ricchezza nel mondo. Nel 2013, per la prima volta dalla rivoluzione industriale del XIX secolo, secondo stime del «Financial Times», saranno i Paesi emergenti, guidati da Cina e India, a produrre insieme oltre la metà della ricchezza. Quando domani quel che resta dei nobili decaduti G8 siincontreràadEnniskilleninIrlanda del Nord, lo storico sorpasso dominerà i pensieri dei leader, anche se, per bon ton, faranno finta di nulla.
Ci siamo abituati all’idea di vivere una stagione rivoluzionaria, l’economia globale, la tecnologia che cambia il mercato del lavoro, il declino europeo, l’ascesa asiatica, la lotta americana per restare potenza centrale. Ma la fatica mentale di studiare il nuovo ci fa perdere di vista l’accelerazione del futuro. Abbiamo, a malincuore, accettato l’idea delle nuove economie, dell’innovazione costante, del passato che si sbriciola, ma non ci rendiamo conto che il XXI muta già a una velocità imprevedibile. Cicli sociali ed economici che richiedevano un secolo, maturano in meno di un decennio.

Cosa vorrà dire «Paesi emergenti nel 2018» si chiedono Chris Giles and Kate Allen citando il Fondo Monetario, se gli «emergenti» da soli produrranno il 58% del Prodotto interno lordo pianeta Terra? Quel che disorienta gli europei, di cui in Italia si discute poco e che gli americani temono è la velocità del mutamento che si accresce, non si stabilizza. «Nel 1950 il centro di gravità dell’economia era nel Nord Atlantico… da allora si va spostando a Est e sarà a Novosibirsk, Siberia, nel 2025… l’urbanizzazione economica cinese procede su una scala 100 volte più rapida della rivoluzione industriale europea… l’impatto sarà mille volte maggiore» calcolano a McKinsey.

Ma i nuovi protagonisti, dopo i primi successi, si perdono a loro volta nel vortice futuro. L’India è cresciuta nel 2013 solo del 4,8% e quando citate questi numeri gli europei sorridono, «magari crescessimo noi così». Sbagliano, perché oltre il dato di crescita non guardano agli standard di vita: 364 milioni di indiani non hanno ancora accesso all’energia elettrica, 762 milioni cucinano ogni giorno accendendo il fuoco, con legna, carbone, escrementi. Sulla carta 4,8% di crescita fa luccicare gli occhi, ma per spegnere quei fuochi di povertà, massacranti per le donne e per l’ambiente, non basta.

Se americani ed europei non possono rilassarsi sul passato, India, Cina, Brasile non possono rilassarsi sul presente. La crescita langue a New Delhi, invischiata da carenza di riforme e eccesso di burocrazia, ed è bastato che la presidente brasiliana Dilma Rousseff cincischiasse, per boria, con il boom economico - 30 milioni di persone uscite dalla povertà sotto governo Lula - perché a Rio tornasse saudade sul benessere. Nel 2012 la crescita si è contratta ad anemici ritmi europei, 0,9%. La sinistra carioca sogna il modello cinese, ma a cancellare la disperazione nel Nord-Est è stato il mercato. Dimenticarlo, frena il Brasile alla vigilia dei grandi eventi Mondiale di calcio e Olimpiadi.

Nessuno più di Cina e Usa soffre per la velocità del mondo nuovo. Solo pochi anni fa l’economista di Singapore Kishore Mahbubani era orgogliosamente certo che il XXI sarebbe stato «il secolo asiatico», come il XX era stato «il secolo americano». Le contraddizioni politiche a Pechino sotto il presidente Xi Jinping e la frenata indiana fanno ora riflettere Mahbubani che nel nuovo saggio «The great convergence: Asia, the West and the Logic of One world», preferisce – saggiamente - parlare di «convergenza» economica e geopolitica. Né «asiatico» né «occidentale» il XXI secolo è «globale», correndo con sue regole in perenne mutazione. Chi si ritiene «arrivato» torna subito indietro.

Mahbubani scopre, per paradosso, che la sfida imperiale dei presidenti Obama e Xi è identica «Riformare il sistema di governo, dominato dalle lobby in America e dal Partito comunista in Cina. Equilibrare il contratto sociale mentre la forbice ricchi-poveri si allarga. Non illudersi che il protezionismo salvi dal mercato globale».

Mentre Pechino e Washington si sfidano in mare aperto, divisi tra guerra e pace, è bene ricordare che il loro futuro è unico, e possono crescere entrambe senza scontrarsi. Qual è invece la morale della favola per europei e italiani? A ben guardare una non negativa, e che il governo Letta se volesse potrebbe sfruttare: è vero che il nuovo mercato ha messo nell’angolo il vecchio continente, ma la velocità dell’innovazione è tale che, se corriamo a riforme economiche e facciamo più bambini saldando il tasso demografico negativo, possiamo dribblare anche India e Brasile. Come loro, a sorpresa, rallentano, noi potremmo, a sorpresa innovando, crescere.