Antonello Guerrera, la Repubblica 18/6/2013, 18 giugno 2013
IL SILENZIO DELL’INNOCENTE
Questo non è l’ennesimo romanzo noir svedese. Questa è una storia vera e sconvolgente, dal finale imprevedibile. Fino a qualche anno fa, Thomas Quick era il più mostruoso serial killer di Svezia: una trentina di assassinii confessati, otto condanne per omicidio, un ergastolo da scontare in un ospedale psichiatrico. Oggi, nel 2013, Thomas Quick non c’è più. Perché Quick ha semplicemente riacquistato il suo vero nome, Sture Bergwall. E nel 2008 ha rivelato che tutte le confessioni dei suoi “omicidi” seriali erano brutali fesserie.
Everything is fabricated, ogni cosa era infondata.
«L’ho fatto perché mi imbottivano di farmaci e droghe», tra cui valanghe di benzodiazepine come lo Xanor, «sottoponendomi a terapie folli. Ero molto fragile mentalmente, in quelle condizioni confessavo qualsiasi cosa. Ma l’ho fatto anche perché avevo bisogno di attenzione», spiega Quick a Repubblica dall’ospedale criminale dove è rinchiuso. Sette condanne su otto gli sono state già annullate. E «l’ultima cadrà in estate, al cento per cento», ci anticipa al telefono da Stoccolma Thomas Olsson, avvocato di Quick (ma anche di Julian Assange). Insomma, per decenni Quick/Bergwall ha gabbato la magistratura, la stampa, la polizia, la Svezia intera. Parafrasando i fratelli Coen (o Ewan Montagu e Ronald Neame), Quick è «il killer che non c’era».
Ma come ha fatto un ex infermiere tossico e mentalmente instabile a raggirare la patria del noir e del giallo nordico, del commissario Wallander, Stieg Larsson e Camilla Läckberg? Due settimane fa il ministro della giustizia svedese, Beatrice Ask, ha annunciato un’inchiesta sul caso Quick. Nel frattempo, è sbarcato in Italia Quick — Il caso del serial killer sbagliato
(Rizzoli, seguirà anche un film nel 2015). L’autore di questa dettagliatissima inchiesta è Hannes Rastam, giornalista del canale svedese Svt morto per un tumore
(aveva 56 anni) il 12 gennaio 2012, ovvero il giorno dopo aver completato il libro. Rastam non ha mai creduto a Quick. Molte cose non lo convincevano: prove insufficienti, ricostruzioni traballanti, perizie psichiatriche superficiali, complici consistenti quanto fantasmi, acide diatribe tra inquirenti, un pubblico ministero inesperto e impreparato. Per non parlare dell’astruso modus operandi di Quick. I cui «omicidi», estremamente diversi tra loro, non avevano nulla di seriale.
Così, nell’era del giornalismo ultra-accelerato, Rastam, come un Wallander 2.0, si è preso qualche mese di tempo per indagare i lati oscuri di questa cruenta vicenda. Ha analizzato le carte dei processi, le perizie, gli interrogatori. Ne viene fuori uno sconcertante ritratto della giustizia svedese, del suo apparato di «assistenza psichiatrica che può essere paragonato soltanto all’Unione Sovietica » e dei media timorati di «sbatti il mostro in prima pagina». Con le sue fandonie, Quick, sostiene Rastam, è riuscito a risucchiare nel suo universo sghembo un intero Paese semplicemente leggendo le ricostruzioni dei giornali dell’epoca, ma anche molta
fiction, tra cui American Psycho di Bret Easton Ellis, oltre a film come Il Silenzio degli innocenti. «È vero, sono state fonti molto utili», ammette Quick. «Moltissime informazioni, però, le ho ricevute paradossalmente dalla polizia e durante gli interrogatori».
Ma come è stato possibile tutto questo? Andiamo con ordine. Sture Bergwall “Quick” nasce nei pressi della cittadina di Falun, Svezia, il 26 aprile 1950. È un bambino asociale, complessato, falcidiato da un morboso senso di inferiorità. In seguito dirà di aver subìto abusi sessuali dai genitori, che un giorno avrebbero persino soppresso il suo fantomatico fratellino Simon (ricostruzioni smentite dai suoi fratelli). A 19 anni, Bergwall cerca di molestare sessualmente quattro ragazzi. A 23 anni, sotto l’effetto di droghe e alcol, quasi uccide un uomo. Nel 1990, poi, il “grande colpo”: una rapina, nella banca vicino casa, con un “amico” 16enne. Bergwall viene arrestato. Entra nell’ospedale psichiatrico di Säter. Qui si guadagnerà il soprannome di
Sätermannen, “l’uomo di Säter”.
Poi, nel 1992, la “svolta”. Bergwall confessa il primo “omicidio”. Quello di Johan Asplund, 11 anni, scomparso il 7 novembre 1980 mentre andava a scuola. Bergwall, che da questo momento decide di chiamarsi Thomas Quick, confessa di averlo rapito, violentato, martoriato, mangiato, seppellito. Ricostruisce tutti i suoi movimenti, indica i punti dove ne avrebbe seppellito i resti. Ma non viene trovata nessuna prova, né un testimone che confermi la sua versione. Risultato: Quick viene condannato lo stesso.
Tra 1993 e 1996, Quick confessa altri omicidi. Tra questi, quello di Therese Johannesen, una bambina norvegese di 9 anni scomparsa il 3 luglio 1988. Racconta di averla uccisa e gettata in un lago che però, prosciugato, non restituisce alcuna prova utile. Nel 1997 vengono trovati «frammenti di ossa di bambino» bruciati, annuncio successivamente smentito. Ma Quick viene condannato lo stesso.
Quick è senza freni. Arriva a confessare altri 25 bestiali assassinii. Una valanga di cold cases che tornano a scottare. Alla fine, Quick riceve otto condanne per omicidio, tra cui quello di Gry Storvik, 23enne stuprata e ammazzata nel 1985 a Oslo. Un caso molto controverso, in quanto, oltre all’omosessualità dichiarata di Quick, nel corpo della donna vengono ritrovate tracce di sperma il cui Dna non corrisponde a quello di Quick.
Ma il tristissimo colmo arriva con il caso dell’adolescente Thomas Blomgren, ucciso a Växjö nel 1964. Al tempo, Quick ha appena 14 anni. Questo, secondo gli inquirenti, dimostrerebbe la sua natura criminale, di solide e
profonde radici. Eppure, per il suo primo omicidio, il “serial killer” ha, involontariamente, un alibi inattaccabile: addirittura la sua Cresima. Ma Quick viene comunque giudicato colpevole della morte di Blomgren (la condanna, però, salta per prescrizione).
Nel 2002, la retromarcia, radicale. Quick si chiude a riccio: decide di non parlare più con nessuno e si riappropria del suo vero nome, Sture Bergwall. Poi, in un’intervista a Rastam nel 2008, vuota clamorosamente il sacco: «Mi sono inventato tutto». «Non sono un assassino e provo orrore per quello che mi hanno fatto senza lo straccio di una prova», ci racconta Quick, che ora ha anche un profilo Twitter molto seguito. Rimorsi? «Sono dispiaciuto per le famiglie delle vittime, a cui ho fatto altro male». Una volta libero che cosa farà? «Scriverò un libro sulla mia esperienza. E poi tante passeggiate, gite nei boschi... Inoltre, ho riallacciato i rapporti con la mia famiglia». L’avvocato Ollson ci dice che «Quick sarà rilasciato il prossimo autunno. Non è affatto un uomo pericoloso. Prima era molto fragile. Ma questa esperienza lo ha fortificato».
La giustizia svedese sembra uscire a pezzi dal ciclone Quick. Ma Olsson getta acqua sul fuoco: «Quello di Quick è un caso molto speciale, sarebbe potuto accadere ovunque. E nessun altro Paese avrebbe annullato così celermente tante condanne ingiuste». Del resto, «il concetto di giustizia non significa solo che le persone che commettono reati vengano condannate. Significa anche non arrendersi mai», scriveva Henning Mankell in
Assassinio senza volto.
Senza volto come i veri assassini che Quick ha praticamente coperto in tutti questi anni. Assassini che ancora oggi sono a piede libero in Svezia.