Scott Sayare, la Repubblica 18/6/2013, 18 giugno 2013
ANNA FRANK, L’EREDITA’ CONTESA DEL SIMBOLO DELL’OLOCAUSTO
In una lettera indirizzata a sua nonna nel 1940, prima di entrare in clandestinità nel nascondiglio, l’undicenne Annelies Frank, detta Anna, riferì un dettaglio che all’epoca non sembrava poter avere grandi conseguenze. «Papà è molto impegnato con l’ufficio scriveva - sta traslocando a Prinsengracht e io andrò a prenderlo alla fermata del tram quanto più spesso possibile». Fu lì, nel locale segreto sovrastante l’ufficio del padre a Prinsengracht, il Canale del Principe, che la famiglia dal 1942 si sarebbe nascosta per oltre due anni dagli occupanti nazisti. Ed è lì, nel museo che ora occupa quell’edificio, la Casa di Anna Frank, che i visitatori possono vedere quella lettera.
La custodia della missiva — insieme ad altri 10mila documenti e fotografie d’archivio simili — è al centro di un’aspra battaglia legale tra la Casa e l’Anna Frank Fonds, l’altra fondazione che si adopera per diffondere la storia di Anna Frank. L’Anna Frank Fonds, fondata nel 1963 per gestire i diritti d’autore del diario di Anna Frank, prestò la maggior parte degli archivi ora contestati alla Casa di Anna Frank nel 2007: adesso la cita in giudizio per ottenerne la restituzione. Gli amministratori della Casa di Anna Frank reagiscono dicendo di aver sempre creduto che i documenti fossero stati dati loro per sempre. La sentenza è attesa per le prossime settimane.
Le due organizzazioni si sono scontrate per anni su questioni legali in controversie varie: la causa in corso però è particolare, perché evidenzia una spaccatura di principio tra le due associazioni e una precisa divergenza nelle opinioni che hanno di Anna Frank e di quello che dovrebbe essere il suo vero lascito.
Oltre alla causa che ha intentato, l’Anna Frank Fonds ha formalmente accusato la Casa di Anna Frank di voler trasformare la giovane ragazza in un’affascinante icona di speranza, ma la cui identità di ebrea e la cui collocazione tra i milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto sono state evidenziate troppo poco. Gli amministratori della Casa, che dirige una rete di mostre e di centri in tutto il mondo, sottolineano che il loro modo di raffigurare Anna è strettamente legato ai desideri di suo padre, Otto Frank, che sopravvisse ad Auschwitz e dedicò la vita a diffondere il messaggio di tolleranza che credeva che sua figlia incarnasse. «Entrambe le as-
sociazioni vogliono essere proprietarie di Anna Frank - dice Melissa Müller, biografa di Anna entrambe vogliono imporre un certo modo di considerare Anna Frank”.
Anna morì di tifo a 15 anni nel campo di concentramento di Bergen-Belsen nel 1945. Ronald Leopold, direttore esecutivo della Casa a lei dedicata, dice che Otto Frank sperava che sua figlia diventasse «un simbolo del futuro» e non del passato. E per questo motivo la Casa, che ogni anno attira oltre un milione di visitatori, cerca di diffondere un “messaggio universale” di tolleranza. Ma quel messaggio è radicato nella storia «molto particolare» di quel piccolo edificio al numero 263 di Prinsengracht. Alcune pagine del diario sono esibite nelle bacheche e alcuni brani del testo scritto da Anna compaiono in tutto il museo, accanto a fotografie della ragazza. Compaiono però poche immagini dell’Olocausto o dei campi di concentramento nazisti o della propaganda nazista: questa è la scelta che l’Anna Frank Fonds critica maggiormente.
Secondo Yves Kugelmann, membro del consiglio di amministrazione dell’Anna Frank Fonds, il museo «è privo di contesto», il volto sorridente di Anna è «troppo presente» e la Casa è diventata di conseguenza «luogo di pellegrinaggio», dove la ragazzina è usata «per tutto e per niente». Anche se suo padre desiderava diffondere un messaggio di tolleranza, dice Kugelmann, di sicuro non voleva vedere sua figlia commemorata in un museo. La Casa di Anna Frank, prosegue Kugelmann, in un primo tempo era stata concepita per diventare un luogo di incontro per i giovani di tutto il mondo.
Otto Frank fondò l’Anne Frank Fonds per gestire i diritti del diario della figlia e per distribuirne i proventi ad associazioni umanitarie, compresa la Casa. Con la morte della seconda moglie di Otto Frank nel 1998, i Fonds hanno ereditato una gran quantità di materiale d’archivio e in un certo senso sono andati oltre il loro ruolo tradizionale. La Casa e i suoi sostenitori hanno messo in discussione questa evoluzione, affermando che i Fonds avevano esagerato. «Otto Frank non ha mai avuto l’intenzione di far sì che i Fonds avessero una loro mostra. Per quello c’era la Casa» dice Eva Schloss, figliastra di Otto Frank, un tempo in possesso di parte dell’archivio oggetto dell’attuale controversia. Eva Schloss ha anche aggiunto che Otto Frank, ebreo non praticante, non ha mai pensato che la storia di Anna dovesse essere presentata specificatamente come quella di una ragazzina ebraica. «Ciò che Otto voleva» è la preoccupazione fissa e la più importante di entrambe le associazioni. Tuttavia, a decenni di distanza dalla sua morte, avvenuta nel 1980, i suoi desideri diventano sempre meno chiari.
© New York Times- La Repubblica
Traduzione di Anna Bissanti