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 2013  giugno 18 Martedì calendario

L’OCCIDENTE SPERA IN DUE MILIONI DI POSTI

«Siamo qui per rilanciare il lavoro, ci aiuterà il nuovo patto transatlantico», dice Barack Obama. «Può diventare il più grande accordo di commercio bilaterale della storia», gli fa eco il presidente di turno del G8, David Cameron. Nell’escalation retorica conclude Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo: «L’Atlantico non è il passato, è anche il futuro».
Davvero la crescita può ripartire grazie ad un gigantesco accordo di libero scambio, che abbatta le residue barriere? La Terra Promessa delle liberalizzazioni ha già riservato delusioni agli europei. Nel 1988 un avvenire radioso fu preannunciato dal Rapporto Cecchini, commissionato dall’allora presidente della Commissione Jacques Delors: prometteva un futuro di crescita vigorosa e aumento dell’occupazione, grazie alla costruzione del mercato unico europeo a partire dal 1992. Molte di quelle proiezioni si rivelarono decisamente ottimistiche. L’equazione “liberalizzazioni=crescita” non sempre funziona come si vorrebbe.
Obama ha dei solidi argomenti dalla sua. La Transatlantic Trade and Investment Partnership, lanciata ieri al G8 e i cui negoziati avranno inizio a Washington l’8 luglio, coinvolge le due economie più grandi del pianeta. Tra loro le relazioni economiche sono già intense. Il “made in Europe” vale 414 miliardi di euro di esportazioni all’anno sul mercato americano. Il “made in Usa” pesa per 327 miliardi degli acquisti europei. Gli investimenti bilaterali raggiungono i 3.700 miliardi. La Casa Bianca stima a 13 milioni di posti di lavoro gli occupati che sulle due sponde dell’Atlantico devono il posto a questo tessuto di rapporti bilaterali. Che possono aumentare ancora, se cadono le residue barriere: un po’ di dazi, ma soprattutto barriere invisibili e non tariffarie. Per esempio, la clausola Buy America che impone il protezionismo nelle commesse pubbliche. Poi ci sono tante regole sanitarie, ambientali, sulla protezione della sicurezza, che talvolta sono giustificate (vedi le riserve europee contro gli organismi geneticamente modificati, o la carne agli ormoni), altre volte mascherano interessi lobbistici: per anni ne hanno fatto le spese i salumi italiani bloccati da assurdi regolamenti “sanitari” Usa. L’obiettivo del nuovo patto transatlantico è sfoltire questa giungla di protezionismi occulti. Ne seguirebbe un boom degli scambi, con effetti moltiplicatori sulla crescita, di cui c’è un gran bisogno oggi soprattutto in Europa. I calcoli del Centre for Economic Policy Research di Londra, fatti propri dalla Commissione di Bruxelles, dicono che da un simile accordo l’Unione dei 27 ci guadagnerebbe 119 miliardi di euro di reddito in più all’anno, l’America 95 miliardi. L’export europeo salirebbe del 28%, nel lungo periodo, con benefici anche per indutualmente tradizionali come l’automobile. Due milioni di posti di lavoro in più, è la stima che ieri è stata ventilata da Cameron.
Proprio sulla stima di questi vantaggi, ieri a Lough Erne c’è stato un piccolo incidente che serve da monito. Quando Obama ha citato il numero di persone che
hanno un lavoro grazie all’interscambio Usa-Ue, alcune agenzie stampa italiane hanno scambiato la parola tredici (“ thirteen”) con trenta (“thirty”), e poi hanno lanciato l’annuncio che ben 30 milioni sarebbero i nuovi posti di lavoro “promessi”. L’infortunio serve a ricordarci quante volte siamo stati bersagliati da annunci mirobolanti; ci siamo quasi assuefatti alle promesse esagerate.
Un altro studio, del think tank tedesco Ifo, conferma i benefici del patto transatlantico, ma con delle correzioni significative. Gli economisti tedeschi ritengono che dalle nuove liberalizzazioni saranno avvantaggiati molto di più gli americani, con un aumento del reddito pro capite del 13,4% legato ai nuovi sbocchi di mercato dopo la caduta delle barriere. Il guadagno europeo nel lungo terstrie
sarà più modesto: +5% di reddito pro capite. É comunque un gioco a somma positiva, che conviene a tutti. L’Ifo aggiunge anche una stima dei posti di lavoro che si verrebbero a creare in Italia: dai 100.000 ai 200.000.
Un pregio dello studio dell’Ifo, è che guarda da vicino due esperimenti di liberalizzazione storici. Uno fu per l’appunto il mercato unico europeo, preconizzato dal Rapporto Cecchini. L’altro fu il Nafta che smantellò barriere fra Stati Uniti, Canada e Messico. Ambedue furono le prove generali, a livello regionale, di quella globalizzazione che in seguito (dal 2001) incluse la Cina. Non tutti ricavarono gli stessi benefici. Il Nafta fece degli anni Novanta un’Età dell’Oro per l’economia americana, il boom di crescita sotto la presidenza di Bill Clinton. Non altrettanto felici furono per l’Europa. Nelle liberalizzazioni, c’è chi sa dare il meglio di sé grazie ai propri guadagni di competitività.
Per la Casa Bianca il patto transatlantico dovrà «ridurre le differenze normative, mantenendo i nostri alti livelli di protezione dell’ambiente, della salute, della sicurezza». Questa è la dottrina Obama, che vorrebbe usare la liberalizzazione Usa-Ue come un modello per rinegoziare con la Cina clausole commerciali che includano più tutele per i lavoratori e più sostenibilità ambientale. Su questo gli europei avrebbero molto da dire, visto che il loro modello sociale è il più avanzato. A condizione che riescano ad alzare la testa dalle loro risse. Ieri hanno dato spettacolo nuovamente. In pieno G8, il presidente della Commissione Barroso ha accusato la Francia di essere “reazionaria”, per il suo protezionismo cinematografico. Francois Hollande lo ha mandato a quel paese, sempre in pieno G8. Un inizio che promette bene per i negoziati di Washington.