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 2013  giugno 18 Martedì calendario

MEZZOGIORNO, TROPPI ERRORI IN CASSA

Ma come è possibile – si chiederebbe chi legge L’equivoco del Sud di Car­lo Borgomeo appena edito e già ristampato da Laterza – aver sba­gliato tutto, dopo aver speso mi­liardi e miliardi per il Mezzogior­no? Proprio così, risponderebbe l’autore, presidente della Fonda­zione con il Sud e profondo cono­scitore della realtà economica e sociale meridionale. Lo scenario di fondo del ’grande sbaglio’ è a­ver misurato gli interventi e le di­stanze attuali tra Nord e Sud sol­tanto in termini quantitativi. Fa mea culpa e ammette: «Abbiamo sbagliato tutti, anche noi meri­dionali». Ecco come l’economista Borgomeo spiega questi errori.

Perché abbiamo sbagliato politi­ca?
«Soltanto in una fase iniziale si può parlare di una politica frutto di una spinta nazionale condivisa e forte. Poi, un po’ alla volta, la cosa si è attenuata fino alla gran­de decisione dell’industrializza­zione forzata come risposta al dramma della disoccupazione. Questa industrializzazione non è stata capace di contaminare in senso imprenditoriale il territorio. Un processo di industrializzazio­ne ha senso se si radica bene nel territorio e se tiene conto delle sue condizioni. Si riteneva invece che la grande fabbrica non avesse bisogno di un contesto favorevo­le, essendo appunto forte e orga­nizzata. Si pensava che bastasse questo perché si radicasse. Furo­no fatti labour­intensive: chimi­ca, siderurgia, ec­cetera, senza rea­lizzare l’industria manifatturiera di seconda trasfor­mazione che dà più occupazio­ne».
Lei sostiene che le politiche a fa­vore del Sud so­no state sempre di tipo quantitativo e non quali­tativo. L’errore è in questo equi­voco?
«Va riscoperto Giorgio Ceriani Se­bregondi, che già negli anni ’50 descriveva le condizioni di uno sviluppo forte e non effimero. So­steneva che qualsiasi intervento esterno ha senso e funziona se impatta su una realtà locale che ha individuato la migliore combi­nazione dei fattori locali. Senza questo sforzo, quanto viene da fuori fatica a innestarsi. Occorre capovolgere l’ordine del giorno. Siamo cresciuti in una cultura che considera la comunità, le relazio­ni positive, la coesione sociale fi­glie di un territorio ricco che sta bene. È invece il contrario. La coesione sociale è una premessa e non l’effetto dello sviluppo».
Il primo intervento pubblico im­portante per il Sud fu quello del­la Cassa per il Mezzogiorno. Per­ché l’esperienza si è poi conclu­sa?
«All’inizio l’attività era fortemente concentrata su alcune opere di infrastrutture (bonifiche, Enel, strade, irrigazione), dopo c’è stata una molteplicità di interventi e si è persa la compattezza tecnica decisionale. La Cassa, nel disegno di De Gasperi, fu fortemente au­tonoma dalla politica, ma poi la politica ha preso il sopravvento. È diventata una macchina in cui l’autonomia tecnico-operativa doveva fare i conti con le scelte e le mediazioni politiche. Così si è svilita».
Ci sono stati poi altri tipi di inter­venti, come quelli dell’importan­te legge 488. Si è continuato a sbagliare?
«Si sono ripetuti i rischi tradizio­nali di tutte le leggi che prevedo­no incentivi erogati in modo sba­gliato: distorsione del mercato e sostegno a imprese che resistono soltanto perché aiutate. Gli inter­venti sono stati sempre e solo au­tomatici. Automatico nel linguag­gio comune significa veloce e tra­sparente; qui significa che si dan­no soldi senza valutare bene il piano imprenditoriale. L’incenti­vo allora ha soltanto la fun­zione di far re­sistere le im­prese abbas­sando i costi. Questa non è incentivazio­ne».
Lei parla di «sviluppo au­topropulsivo». In che senso?
«Non significa autarchico, che si fa tutto in casa e che non si vo­gliono aiuti. Significa che la prima scintilla deve avere forti radica­menti locali. Questo significa re­sponsabilità dei soggetti, cultura delle situazioni locali. Si evitereb­bero tanti errori. Il primo è que­sto: se sono ritenuto incapace di promuovere sviluppo, arriva qualcuno da fuori che me lo spie­ga ignorando però le mie tradi­zioni, la mia cultura e le mie rela­zioni con il territorio. Adriano Oli­vetti, quando inaugurò lo stabili­mento di Pozzuoli, quasi quasi chiese scusa di inserirsi in una cultura diversa».
Nel dibattito sul Meridione nel 1989 entrò la Chiesa italiana, do­po circa 40 anni dalla lettera «I problemi del Mezzogiorno», con il documento della Cei «Sviluppo nella solidarietà». Con quali ef­fetti?
«Fu un documento organicamen­te innovativo. Fu redatto con una lucidità politica impressionante. Ha aiutato complessivamente la Chiesa. In alcune aree forse ci sa­remmo aspettati prese di posizio­ni più forti. Grazie a quel docu­mento si può dire che sul territo­rio la rete più forte attualmente è quella della Chiesa e di molti suoi rappresentanti».
Quella per il Sud è una battaglia persa o è ancora possibile imma­ginare una politica corretta?
«Al Sud ci sono le energie per far­cela, ma occorre insistere sulle re­sponsabilità dei soggetti locali; per fare questo è necessario ab­bandonare un obiettivo velleita­rio: quello di portare il reddito monetario degli abitanti del Mez­zogiorno al pari di quello del Cen­tro Nord. Questo obiettivo così complesso e difficile ha un effetto di deresponsabilizzazione. Il cit­tadino del Mezzogiorno deve ave­re le stesse condizioni di vita mi­nime, dignitose, positive (scuola, salute, servizi) di chi vive nel Cen­tro Nord».