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 2013  giugno 16 Domenica calendario

“IO, FIGLIA DI DUE PADRI ECCEZIONALI HO DEDICATO LA VITA A MIA MADRE”


[Renata Colorni]

Dagli oggetti ai libri, alle foto ai quadri, niente appare fuori posto nella bella casa milanese di Renata Colorni. Nell’ampio salone rettangolare si avverte un’idea di ordine. Restituisce un senso di meticolosità. E osservo, per contrasto, questa donna che mi siede di fronte e nervosamente fuma e stropiccia dei fogli che ha in mano. Coltiva molti dubbi sull’esito del nostro incontro. Quasi che una piccola ansia da prestazione lasci intuire remote fragilità che il tempo ha coperto con i sacrifici, la volontà, l’intelligenza e il successo, se per successo si intende aver realizzato con grande competenza ciò che lei ha chiesto alla vita.
Ecco il punto. O meglio la questione: quale scia di incertezza lascia una persona divisa tra due padri, due modelli che in tempi diversi hanno agito, lavorato, scavato sulla sua psiche e probabilmente continuano a farlo? Non è irrilevante che alla fine della nostra conversazione, quasi a suggello di un incontro, che diventerà gradevole e franco, mi faccia dono di un paio di libri del padre, Eugenio Colorni, che lei non ricorda fisicamente, ma che è stato una profondissima presenza. E quando sorpreso dal rosso intenso di un quadro di Aldo Mondino che ritrae il vecchio Renoir nello studio di Cagne-sur Mer mi dice: «Ha notato la somiglianza con Altiero Spinelli? Fu Luciano Foà a suggerirla», io penso che lì, in quel preciso istante le due figure paterne trovino un punto di pacificazione.
Sono state così importanti?
«In modi diversi: una ha soprattutto agito nella memoria e l’altra nella vita. Una era il ricordo, l’altra la presenza concreta, non quotidiana, ma reale, con tutti i problemi che questo avrebbe comportato».
Due padri e una madre.
«Mia madre era Ursula Hirschmann, sorella di Albert Hirschmann, l’economista scomparso alcuni mesi fa».
Era tedesca?
«Sì, ed è stata una donna che ha influenzato profondamente la mia vita. Per lei era importante che noi figlie sapessimo il tedesco. Contrariamente a molti ebrei tedeschi — compreso suo fratello — che avevano rifiutato o rimosso la lingua, mia madre era convinta che non si poteva fare a meno della letteratura e della poesia tedesca».
Quando dice noi figlie cosa intende?
«Intendo le tre figlie nate dal matrimonio con Eugenio Colorni e le altre tre avute dal matrimonio con Altiero Spinelli ».
Suo padre, Eugenio Colorni, muore nel 1944, lei è una bambina. Che ricordo ha?
«Mio padre venne ucciso dai fascisti della banda Koch due giorni prima che Roma fosse liberata dagli americani. Non vedevo papà dall’anno prima. Con le persecuzioni razziali noi bambine eravamo state portate in Svizzera, in un luogo non distante da Bellinzona. Non ho un ricordo della morte di mio padre, ma ho ben presente quando mia madre venne a dirci che era stato ucciso. Silvia, la sorella più grande, cominciò a singhiozzare; e io, rivolgendomi a Eva, la più piccola, dissi: questa è una cosa per cui si deve piangere. E piangemmo tutte».
E sua madre?
«Era molto provata. Anche se con mio padre si erano già lasciati e lei aveva un vistoso pancione, segno di una gravidanza al nono mese. Di lì a poco sarebbe nata la prima delle altre tre figlie che avrebbe avuto con Altiero Spinelli».
Come ha vissuto in seguito quella morte, avvenuta in un modo così violento?
«Da bambina mi ero fatta l’idea che mio padre fosse stato un grande eroe, morto per la libertà. Un po’ come, con qualche retorica, si leggeva nei libri di scuola di certe figure leggendarie. E la cosa strana è che in casa nostra non c’era affatto la venerazione, la memoria di quest’uomo. Neppure una fotografia».
Perché?
«L’amore tra Altiero Spinelli e mia madre riempì talmente la loro vita da non lasciare spazio per Colorni nella nostra casa. Papà — cioè Spinelli, perché Colorni per me era ed è Colorni — è stato un ottimo genitore. Non ci ha mai fatto sentire orfane, mostrava lo stesso affetto e disinvoltura per i figli suoi e non suoi».
Era un uomo molto impegnato altrove?
«Lo era, essendo egli, insieme alla mamma, concentrato nella battaglia per l’Europa. Mi viene in mente un episodio. Quando, nel decimo anniversario della morte di Colorni, lessi un articolo di Ernesto Rossi, il più grande amico di Spinelli, in cui si diceva che Eugenio era stato un grandissimo intellettuale che aveva sì fatto la Resistenza per impegno morale, ma che la sua vera ambizione era tornare ai prediletti studi di filosofia, e che quindi la sua fu un po’ una morte per caso, indignata andai da mio padre. Gli dissi: come si era permesso di insultare la figura di Colorni? E mio padre, con molta tranquillità, rispose che Ernesto aveva ragione e cominciò a darmi i primi scritti autobiografici, i primi libri che potevo cominciare a leggere e capire».
Immagino che in seguito la sua laurea in filosofia fosse anche un omaggio a Colorni padre.
«Mi laureai in filosofia medioevale a Milano. Per un po’ feci l’assistente all’università. Era il 1968. Ero sposata con un funzionario del Pci, avevo due figlie e una certa necessità di guadagnare. Accettai l’anno dopo un’offerta di lavoro che mi arrivò dalla Franco Angeli, una casa editrice specializzata in testi di marketing, ma vogliosa di aprirsi alla cultura universitaria. Mi affidarono alcune collane e per me è stato un felicissimo apprendistato».
Quanto è rimasta?
«Fino al 1973. A quel tempo Michele Ranchetti mi presentò a Paolo Boringhieri che stava allestendo l’edizione italiana delle opere di Freud e cercava una figura di riferimento per tutto ciò che riguardava la traduzione. Fu così che partì quella straordinaria avventura durata parecchi anni. Cesare Musatti, uomo di sovrana simpatia e indiscrezione, sovrintendeva al lavoro. Non vedeva l’ora che io finissi. Mi metteva fretta. Un giorno mi telefonò, lasciandomi allibita: sono un uomo anziano, potrei morire da un momento all’altro, la smetta di cincischiare con il suo amato tedesco, Concluda!».
Cosa ha rappresentato l’esperienza Feud?
«È stato entrare in un mondo non solo scientifico, ma letterario. Non avevo la minima idea di cosa fosse una traduzione letteraria e l’ho capito misurandomi con il grande scrittore che è Freud. È stato il dono più bello che potessi ricevere. Tanto è vero che terminata l’edizione delle opere di Freud, Roberto Calasso e Luciano Foà mi proposero di lavorare all’Adelphi».
Cosa le offrirono?
«Di occuparmi della letteratura tedesca. All’inizio rivedevo le traduzioni degli altri. Poi chiesi di tradurre anch’io qualcosa e alla fine ho tradotto molto per loro: Canetti, Roth, Schnitzler, Bernhard, Dürrenmatt. Ho lavorato per sedici anni all’Adelphi. E mi sono sentita quasi sempre a mio agio. Non avevo compiti decisionali. Ma la totale libertà nel mio mondo. Ho appreso dalle persone che vi hanno lavorato il senso del rigore e della qualità. Poi nel 1995 sono passata alla Mondadori».
Dove lei cura principalmente la prestigiosa collana dei Meridiani. Quelli più critici sostengono che la narrativa italiana sia il punto debole. Cosa replica?
«Posso capire che certi autori non incontrino il gradimento di alcuni. Ma è così ovunque. Perché alla fine conta anche il gusto letterario. Sono stata felice, per esempio, di aver pubblicato ben tre volumi delle opere di Mario Soldati. Per me è stato un grande scrittore. O Piero Chiara. C’è chi potrà ritenere la cosa eccessiva. Ma detto questo, il punto è un altro. La vera intuizione è stata pubblicare i poeti italiani. Gli scrittori alla fine li leggi nei libri che hai comprato nel tempo e il Meridiano è una specie di consacrazione. Il poeta no. Averlo nella sua interezza, fornirlo di un apparato critico, di una cronologia è fondamentale. Come, in fondo, è accaduto con la saggistica. Per me questo è stato il vero impegno ».
La sua vita, ho l’impressione, è molto legata ai doveri.
«Moltissimo, forse troppo».
Nel senso che c’è qualcosa da cui avrebbe preferito liberarsi?
«Questo no, i doveri li senti o non li senti. Penso ancora con gratitudine e orgoglio alla mia famiglia; ai valori e agli ideali etici e politici che hanno nutrito la vita dei miei genitori. Penso alla sofferenza e alla passione con cui li hanno perseguiti fino alla fine della loro esistenza. E so che tutto questo mi ha risarcito del dolore e del senso di abbandono e di solitudine che pure in qualche circostanza ho avvertito».
Intende quelle attenzioni che di solito vengono riservate ai figli nelle famiglie normali?
«Già. Attenzioni che io ho riversato su mia madre quando si ammalò nel 1976 di un aneurisma cerebrale che la rese afasica. Mi occupai molto della sua rieducazione alla parola. Le leggevo autori tedeschi che aveva amato e a poco a poco la riabilitazione funzionò. Pochi giorni prima che morisse, nel 1991, la misi a letto, come facevo tutte le sere. Avevamo ascoltato musica tutto il giorno: Händel e Bach. E lei, prima che spegnessi la luce, mi prese la mano e disse: nichts sagen, non dirlo a nessuno, Wagner, wunderbar, meraviglioso. Mi torna in mente perché in casa Wagner era tabù e io fin da ragazzina non lo avevo mai ascoltato».
E lei come reagì?
«Chiesi se lo ascoltava di nascosto. Fece cenno di sì con la testa. Il suo Super Io ci aveva impedito di avvicinarci a Wagner, ma la sua sensibilità, il suo gusto, la sua cultura le facevano pensare l’opposto. E poiché era alla fine poteva dire come stavano davvero le cose».
Ha mai pensato a cosa è stata questa dedizione per la mamma?
«L’aspetto più bello che conservo nella memoria di quegli anni è che lei non ha vissuto la dedizione come qualcosa che le era dovuto, bensì come un gesto disinteressato, libero dalla vischiosità di certi atteggiamenti che in molte famiglie diventano delle forme di ricatto. Quanto a me, la parte più intima di questa storia è stata di viverla come un risarcimento dato a lei per tutto quello che di interessante e di passionale avrei ricavato dal mio lavoro nei libri».