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 2013  giugno 16 Domenica calendario

LA FINE DEL SEGRETO


I nostri sembrano i tempi della scomparsa degli arcana imperii del sovrano e dei segreti dei privati. È vero, esistono segreti ben custoditi e considerati inviolabili – la formula della Coca Cola, l’algoritmo di Google. Ma, guardando ad altri casi, dobbiamo invece dire che siamo ormai entrati nell’impero della trasparenza senza confini, di una luce abbagliante che illumina qualsiasi cosa?
Partiamo da tre nomi – Daniel Ellsberg, Bradley Manning, Edward Snowden. Sono i tre giovani americani che hanno consentito al mondo intero di conoscere aspetti essenziali e riservati della politica degli Stati Uniti. Ellsberg rese pubblici nel 1969 i “Pentagon Papers”, i documenti che riguardavano la politica americana negli anni della guerra del Vietnam. Manning, nel 2010, passò a Wikileaks di Julian Assange centinaia di migliaia di comunicazioni riservate relative alla politica estera del suo paese. E le informazioni fornite da Snowden hanno permesso di scoprire la rete di controllo stesa dagli Stati Uniti sull’intero pianeta.
Non siamo di fronte alle classiche e limitate fughe di notizie, ma all’applicazione estrema del detto di un grande giudice della Corte Suprema americana, Louis Brandeis, divenuto quasi un proverbio democratico: «la luce del sole è il miglior disinfettante». Non è certo un caso, allora, che tutte queste vicende abbiano avuto il loro epicentro negli Stati Uniti, dove continua a manifestarsi una robusta tradizione di consapevolezza civile che vede nei cittadini, in ogni cittadino, il depositario e il responsabile di un potere di controllo che deve essere esercitato per garantire gli equilibri democratici, anche a costo d’essere processati (com’è puntualmente accaduto). La trasparenza, dunque, come irrinunciabile risorsa della democrazia.
Guardando più da vicino quelle diverse vicende, che riassumono emblematicamente la condizione che viviamo, si possono subito fare due considerazioni generali. Vi è una tesi, non nuova, che esalta la società della trasparenza totale, sostenendo che in essa può essere eliminata l’asimmetria di potere generata dall’impiego delle tecnologie del controllo, perché queste sono disponibili sia per i sorveglianti che per i sorvegliati. Una tesi ottimistica, o ingenua, visto che i sorvegliati, come dimostra appunto il Datagate, possono svelare le caratteristiche di un sistema che viola su scala planetaria i diritti dei cittadini, ma non riescono con le sole loro forze ad impedire che le violazioni siano eliminate.
Più importante è sottolineare che, cogliendo l’opportunità tecnologica per far crescere quasi senza limiti la raccolta delle informazioni e la loro conservazione in banche dati sempre più gigantesche, gli Stati non si sono resi conto che in questo modo crescevano, insieme, trasparenza e vulnerabilità. La funzionalità di questi database, infatti, è strettamente legata alla loro connessione, alla condivisione, alla possibilità di ampi e molteplici accessi. Ma soprattutto non si è avvertito che lì si stava depositando un nuovo sapere sociale, della cui importanza e utilizzabilità si rendevano conto più i cittadini che i detentori delle informazioni. Questo solo fatto redistribuiva potere, ed era evidente che una così inedita opportunità prima o poi sarebbe stata colta. È quello che è avvenuto, e continua ad accadere.
Ma può la democrazia essere identificata con l’assoluta trasparenza, con l’obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo? Kant poneva il divieto di mentire dei governanti come un imperativo. Ma anche i regimi democratici conoscono casi in cui il segreto è ammissibile, anzi può essere considerato necessario e doveroso. Qual è, allora, il tasso di segretezza, e di insincerità, che un sistema democratico può sopportare senza mutare la propria natura?
Proprio il caso Wikileaks ci fornisce elementi per cominciare a rispondere a questo interrogativo. Affidato ad alcuni grandi giornali il compito di selezionare il materiale pubblicabile, vennero escluse tutte le informazioni che potevano mettere a rischio la vita e la sicurezza di singole persone o lo svolgimento di operazioni in corso. Qui cogliamo una traccia di quello che, in polemica con Kant, sosteneva Benjamin Constant: «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Ma chi è l’altro che deve essere tutelato, il singolo violato nella sua sfera privata o un potere pubblico che vuole agire al riparo d’ogni controllo?
La distinzione è essenziale. Si dice che ognuno di noi deve potersi sottrarre ad un continuo e implacabile scrutinio pubblico, deve poter conservare il diritto di “ritirarsi dietro le quinte”. Che cosa accade, però, quando si passa dalla sfera privata a quella pubblica, quando la persona diventa figura pubblica, quando un potere pubblico o privato vuole innalzare altissime mura per sottrarsi, attraverso il segreto, ad ogni forma di controllo? La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo “in pubblico”. Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l’inammissibilità della menzogna in politica, che è cosa diversa dalla necessità di individuare i casi in cui la segretezza non è fondata sulla necessità di arcana imperii, sull’esistenza di una sfera in cui il potere si trasforma nella pretesa dell’incontrollabilità. Rovesciata la logica che muoveva dal principio di un potere politico sottratto dall’occhio del pubblico, è possibile individuare casi in cui la riservatezza è necessaria per raggiungere un obiettivo democraticamente rilevante, dunque radicalmente all’opposto di quelli legati a ben diverse e opposte finalità. Anche per i primi, tuttavia, non sono ammissibili chiusure più o meno assolute. La riservatezza può essere necessaria nello svolgimento di un negoziato, di cui poi si deve rendere pienamente conto. Il segreto deve cedere di fronte al controllo di commissioni parlamentari o di istituzioni specifiche (in Italia, ad esempio, il Garante per la privacy). In un preciso quadro di garanzie, la trasparenza torna così ad essere condizione per la partecipazione dei cittadini, senza che la democrazia venga ridotta all’uso ossessivo e indiscriminato dello streaming.