Jaime D’Alessandro, la Repubblica 16/6/2013, 16 giugno 2013
IL GRANDE CERVELLO
“No nc’è più alcun ostacolo che impedisca la creazione di un indice unico di tutto il sapere. Una memoria planetaria a disposizione del genere umano, accessibile dal Perù come dalla Cina, dall’Europa come dall’Africa”. Così H. G. Wells al Royal Institution of Great Britan il 20 novembre del 1936. Lo scrittore stava esponendo la sua idea di “World Brain”, sorta di biblioteca universale fatta di intelligenza sintetica. Lo scibile a uso e consumo del mondo intero grazie alla tecnologia. Un’idea che poi sarebbe stata pubblicata nella raccolta di saggi intitolata proprio World Brain.
A settantasette anni di distanza, la profezia di Wells sta diventando una realtà. Si chiama Google Books ed è un progetto cominciato nel 2004 con il nome di Google Books Search. In apparenza ha l’ambizione di trasferire in digitale tutto quello che l’uomo ha prodotto in forma di libro. In realtà ha la potenzialità di trasformarsi nell’intelligenza artificiale più raffinata mai prodotta, l’unica in grado di comprendere il senso del discorso in maniera compiuta soddisfacendo ogni nostra richiesta grazie all’addestramento sui venti milioni di volumi già scansionati dall’azienda di Mountain View.
Di qui una lunga serie di polemiche e accuse per il pericolo intrinseco: una tale concentrazione di dati e un simile know-how darebbero a Google — già ogni giorno più potente — un potere gigantesco. Ed è proprio questo che racconta Google and the World Brain, documentario girato da Ben Lewis e coprodotto dalla britannica Bbc, dalla spagnola Tve, dalla francese Arté e dalla tedesca Zdf. Appena terminato, è stato selezionato da una serie di festival fra i migliori documentari del 2013, a partire dall’autorevole Sundance.
«Questa è una vicenda che si può guardare da tanti punti di vista», racconta Lewis, inglese di quarantasei anni con un lungo passato da documentarista alle spalle e qualche libro singolare, pubblicato anche da noi, come Falce e sberleffo. Una storia del comunismo attraverso la satira (Piemme). «L’aspetto della privacy ad esempio — continua il regista — relativo all’uso che Google fa delle informazioni su chi consulta i libri in digitale. Poi c’è quello dei diritti di autore sul quale c’è già stata una sentenza di una corte americana. Infine il concetto di biblioteca universale e quello dell’intelligenza artificiale di nuova generazione che ovviamente vanno ben oltre il semplice trasferimento del sapere in forma digitale ». Il giudice Danny Chin, della United States Court of Appeals for the Second Circuit di New York, si è pronunciato nel marzo del 2011: la digitalizzazione dei libri in maniera così estensiva viola il copyright, visto che Google non chiede il permesso né agli autori né agli editori, anche se non si tratta di un progetto a fini commerciali. Il precedente accordo raggiunto nel 2008 con l’associazione degli autori e quella degli editori americani, a fronte di un pagamento di 125 milioni di dollari, di conseguenza è stato giudicato nullo.
Ma, almeno in questa sede, non è l’aspetto del copyright quello che interessa. Né il conflitto, insanabile, fra modelli di business del passato basati sulla vendita di copie fisiche e nuove forme di diffusione e fruizioni dei contenuti ai tempi di Internet. La parte più seducente di Google Books è invece proprio quella di costruire una mente digitale superiore e di farlo attraverso l’analisi di milioni di libri, unita a quella di miliardi di azioni compiute sul Web dalle persone. Amit Singhal, vice presidente della multinazionale di Mountain View, durante una conferenza tenutasi a fine agosto del 2012 riguardo il futuro delle ricerche sul Web lo ha detto chiaramente. L’obiettivo è quello di arrivare al computer dell’Enterprise, la nave stellare di Star Trek: «Al quale si può parlare ed è capace di ragionare».
Dopo la vittoria di Deep Blue, il super computer della Ibm, che sconfisse a scacchi Garry Kasparov nel 1997, il mondo dell’hi-tech ha iniziato a guardare a nuove sfide. «Così nacque Watson, che a febbraio del 2011 partecipò a Jeopardy(una sorta di Rischiatutto, ndr) battendo i suoi due concorrenti. Ed è un gioco completamente diverso: si tratta di comprendere una domanda e rispondere in modo appropriato», spiega Clay Shirky, docente alla New York University ed editorialista di New York Timese Wall Street Journal.
Il bello è che Watson basava il suo sapere essenzialmente su Wikipedia e alcune altre enciclopedie. Ora la domanda è: cosa riesce a fare Google avendo a disposizione venti milioni di libri? Che quei volumi vengano usati anche allo scopo di creare una intelligenza artificiale pare non ci siano dubbi. Almeno stando a Kevin Kelly, cofondatore di Wired. Quando chiese a Larry Page, uno dei due “padri” di Google, perché avevano deciso di dar vita a un motore di ricerca, Page rispose che il vero obiettivo non era quello, ma appunto - una nuova intelligenza artificiale. Ipotesi confermata anche da Ray Kurzweil, pioniere nel campo del riconoscimento digitale dei caratteri e della trasformazione del testo in parole. «Molte delle mie chiacchierate con Larry Page riguardano non solo la digitalizzazione del sapere ma la creazione di un’autentica intelligenza sintetica», ammette. «Ed è un obiettivo possibile se hai una quantità sufficiente di dati. Il risultato potrebbe valere molto più di qualsiasi altra cosa prodotta da Internet fino ad oggi». A dicembre Kurzweil è stato assunto a tempo pieno da Google per lavorare a progetti che riguardano “la capacità di apprendere delle macchine”. O, per dirla con le parole dello stesso Kurzweil, «per portare la comprensione del linguaggio dentro Google».
Internet non è solo la più grossa concentrazione di informazioni mai raccolte nella storia e resa disponibile istantaneamente a tutti. Internet è anche lo strumento per un computer di apprendere il nostro modo di pensare, di agire, di compiere scelte. Soprattutto da quando le connessioni da dispositivi mobili, che dicono tanto di noi, sono aumentate in maniera vertiginosa. Basti pensare che attualmente ci sono un miliardo e 200 milioni di smartphone attivi del mondo. E il 75 per cento di quelli venduti nei primi mesi del 2013 hanno come sistema operativo Android di Google.
È un mondo straordinario e spaventoso allo stesso tempo, disse a
Repubblica Eric Schmidt, attuale presidente della multinazionale americana riferendosi alle potenzialità incredibili e ai rischi di questo nuovo umanesimo delle macchine. È la stessa persona che Julian Assange ha attaccato apertamente criticando il suo libro The New Digital Age scritto assieme a Jared Cohen. «Shmidt e Cohen sono due negromanti e l’ideologia di Google è simbolo del nuovo imperialismo tecnocratico con cui gli Stati Uniti puntano ad assoggettare il resto del mondo nel corso di questo secolo».
In realtà Google negli anni ha fornito e fornisce tutt’oggi servizi straordinari e gratuiti. È una azienda che ha innovato plasmando il mondo, spesso a beneficio degli utenti. Ma è ovvio che il suo successo e la sua capillarità, trattandosi pur sempre di una multinazionale che ha come scopo fare utili, ormai desti sospetti. Viene però da dire che, oltre ai suoi meriti e alla sua presunta pericolosità, la situazione attuale è anche frutto dell’assenza di normative globali che ormai suonano come una assurdità in un mondo sempre più interconnesso e dei demeriti dei concorrenti che non hanno saputo proporre alternative altrettanto valide. Con buona pace di Julian Assange.