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 2013  giugno 16 Domenica calendario

L’INVENTORE DI SOGNI


[DANTE FERRETTI]

A Cinecittà non c’è più il cinema, spenti i riflettori nei teatri di posa, sbarrati i cancelli, mitici, sulla via Tuscolana. Gli scarsi visitatori entrano dall’ingresso secondario e si incamminano tra solennità di cartongesso rimaste lì in memoria di un glorioso passato. Ma non sono sole. Dante Ferretti, uno che non ci lavora da quando non disegnò Gangs of New York di Martin Scorsese, una decina di anni fa, si ostina a mantenere il suo laboratorio di scenografia proprio qui, sulla destra del viale centrale, quasi di fronte al celebre Teatro 5. È qui che comincia l’ideazione delle sue scenografie prima di raggiungere il luogo delle riprese ed è qui, nel grande spazio luminoso del suo atelier, che lo incontriamo. Ha abbandonato per qualche giorno gli studios londinesi di Pinewood, dove sta lavorando a Cinderella, il film della Disney con la regia di Kenneth Branagh. E con un paio di assistenti raccoglie i materiali (alcuni pubblicati in anteprima nelle pagine successive, ndr) per la grande mostra che da settembre a febbraio gli dedicherà il MoMa di New York. «Ci saranno disegni, bozzetti, certamente l’orologio di Hugo Cabret, i lampadari di Salò, le statue dei leoni di Venezia, un pezzo di aereo di The Aviator, la testa del cavallo del Barone di Münchausen, più allestimenti vari. Ma credo che l’elemento più divertente sarà il labirinto di Fellini, un gioco di teli sui quali proietteranno le immagini dei suoi film».
La mostra newyorchese è anche un’occasione per celebrare i settant’anni di Ferretti — «Ma io, sono sincero, mi sento un ragazzetto» — vero maestro di cinema, art director tra i migliori al mondo. «Il mio è un mestiere bellissimo. Ogni film a cui lavoro mi permette di vivere in un mondo diverso, quello creato dalla fantasia del regista e a cui io dò una forma». La sua prima scenografia fu per Medea, anno 1969. «È stato Pasolini a promuovermi da assistente a scenografo. Da Medea in poi ho fatto tutti i suoi film. Ci siamo sempre dati del lei, ma c’era un rapporto bello, di stima e di profondo rispetto reciproco».

Da Pasolini in poi le diverse fasi del lavoro non sono mai cambiate. «La prima idea si materializza con uno schizzo su qualsiasi materiale mi trovi davanti. Uso con più facilità il carboncino e la matita. Per ogni ambiente butto giù svariati schizzi. Il passo successivo è il bozzetto. È il mondo dei colori, mi piace la ricercatezza, la perfezione del segno, la cura del particolare. Spesso faccio bozzetti enormi, paradossalmente perché sono un pigro: quando il regista mi chiede qualcosa, invece di parlare c’è il bozzetto che risponde per me». Sono poi gli assistenti — pochissimi o una squadra, dipende dal budget — a elaborare i disegni tecnici e i modellini: «Sono particolarmente importanti per le scene complesse, impossibili da definire sul disegno. Lavorare sui modellini consente sempre di aggiungere qualcosa di nuovo sulla costruzione. Costruire, seppure in miniatura, vuol dire confrontarsi con i problemi tecnici ed estetici di una sequenza, emergono con più precisione le esigenze di altri professionisti, il direttore della fotografia per esempio. Ma soprattutto il regista ha la possibilità di verificare se gli effetti drammatici si sposano con la costruzione che fa da sfondo alla scena».
Il budget di Cinderella gli permette di lavorare con quasi duecento assistenti. «Le riprese cominceranno ad agosto, Branagh sta ultimando il cast, l’unica sicura è Cate Blanchett, la matrigna. Stiamo costruendo il palazzo reale, il castello, lo scalone su cui Cenerentola perde la scarpetta, la zucca che diventa carrozza. Il film è abbastanza fedele alla favola, solo ambientato a metà dell’Ottocento in una zona tra Austria e Francia, un po’ come la principessa Sissi. Mi sono divertito a usare Fragonard come artista di riferimento. Anche in questo, come in tutti i film, cerco di mettere qualcosa di sbagliato. Secondo me ci vuole sempre un errore, in modo che tutto sembri vero».
Da qualche settimana sul set di Cinderella c’è anche Francesca Lo Schiavo, arredatrice, moglie, complice. Si conobbero in Sardegna, una sera d’estate a cena da un amico comune, Fabrizio De André. «Chiacchierando scoprimmo che a Roma abitavamo a due strade di distanza e che usavamo lo stesso garage. Cominciammo a lasciarci bigliettini sulla macchina: la nostra storia è nata così, e sono passati trentasei anni», racconta Ferretti. Che ai tempi era già uno scenografo affermato. Lei lavorava in uno studio di design. «Ci siamo sposati dopo un anno e mezzo, è arrivato subito il primo figlio. Io ero molto occupato, e stavo spesso fuori, e Francesca mi chiese di lavorare con me. All’inizio ero contrario, non mi piaceva l’idea di moglie e marito sempre insieme, a casa e al lavoro, potevamo stancarci l’uno dell’altra. Il nostro primo film insieme è stato La pelle di Liliana Cavani. Poi Fellini, è stato lui che ha preso Francesca al laccio e che l’ha promossa». È nata così una collaborazione da Oscar, sei candidature e tre statuette vinte da entrambi — The Aviator(2005), Sweeney Todd(2008), Hugo Cabret(2012) — che si confondono tra decine di altre statuette e premi internazionali che affollano uno scaffale della loro bella casa romana. Se per lei «è l’Oscar per The Aviator quello che più mi tocca il cuore, il primo, ricordo che cercavo di contenere le emozioni, non riuscivo ad essere contenta, solo dopo mi sono resa conto...», per lui è «particolarmente caro il primo David per Un mondo nuovo, l’unico film con Scola... ma mi emoziona anche la prima nomination, che fu per Le avventure del Barone di Münchausen, anche perché un critico americano scrisse era la più bella scenografia della storia del cinema».
Il legame tra Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo si è rafforzato grazie anche all’amore per il proprio mestiere. Lei ne parla con naturalezza: «È un lavoro fatto di lunghe ricerche e di concentrazione, gli arredi devono riempire gli spazi e restituire il sapore di un’epoca, ma bisogna sempre aggiungere un tocco personale». Lui ritrova a tratti l’entusiasmo e la curiosità di un ragazzo: «Lo stesso di quando accompagnai mio padre a Roma, doveva consegnare alcuni mobili da Macerata dove aveva una piccola fabbrica. Aspettandolo andai al cinema, vidi Ben Hur, fu una folgorazione. Gli dissi che avevo deciso: dovevo venire a studiare a Roma, dovevo imparare a costruire le scene dei film. Me lo permise solo dopo che con uno sforzo incredibile riuscii a superare gli esami di maturità».
Negli anni la collaborazione tra scenografo e arredatrice è diventata sempre più facile. «Ci parliamo sempre meno. Lo facciamo all’inizio di un film, poi lei vede i miei bozzetti e va avanti per conto suo, non ho bisogno di dire niente, so quello che fa, è brava, amatissima da Martin (Scorsese, ndr), lui dice che lei ha il mestiere nel Dna. Con Francesca mi sento tranquillo, soprattutto lavorando in America. Quando lei salta un film per me è un lavoro in più, devo controllare tutto. Molti stranieri sono bravi, ma spesso ignorano l’arte italiana, i maestri della pittura, la cultura europea».
Il cinema internazionale ha celebrato con molti riconoscimenti la genialità di Ferretti ma, a parte Scorsese con cui è nato un legame anche di amicizia, i suoi veri miti restano tutti i grandi italiani: «Sono quelli con cui mi sono formato: Bellocchio, Petri, Scola, Comencini, Cavani. Pasolini in particolare. Da lui ho imparato che le immagini possono diventare poesia. E naturalmente Fellini, col quale ho scoperto la libertà della fantasia, il cinema della visionarietà, del sogno». Con lui ha lavorato per quindici anni, da Prova d’orchestra a La voce della luna. Tra i due c’era un rapporto speciale. «Lui di Rimini, io di Macerata, due provinciali, avevamo memorie comuni, l’adolescenza sull’Adriatico, gli incontri bizzarri. Mentre parlava aveva l’abitudine di disegnare schizzi di caratteri, in fondo era lui che mi ispirava, non a caso lo chiamavo il Faro. La domenica si andava a pranzo a Fregene, ero un po’ suo prigioniero, se non altro perché ero io che guidavo. Ogni tanto mi chiedeva di accompagnarlo per un sopralluogo. Inutile, sapevamo entrambi che avrebbe ricostruito tutto a Cinecittà, ma gli piaceva l’idea. Una volta andammo a Bologna solo perché voleva mangiare in un ristorante che conosceva ». Fellini diceva che in una gara di bugie Ferretti lo avrebbe battuto. «Il fatto è che quando eravamo in auto mi chiedeva sempre che cosa avevo sognato. All’inizio dicevo cose banali, poi cominciai a inventare sogni che somigliavano a sequenze dei suoi film e lui rideva. Ma era impossibile essere più bugiardi di lui».
Ferretti e Lo Schiavo hanno doppio passaporto, una casa a Roma e una a Miami. Sono ventidue anni, da Amleto di Zeffirelli, che non fanno un film italiano. «Qualche volta mi hanno chiamato, ma ero sempre occupato altrove. Devo anche dire che per uno che, come me, ha amato il cinema grandioso e colossale, Hollywood era un richiamo irresistibile ». E mostra una foto sbiadita della prima volta della coppia a Los Angeles per il film di Ferreri Storie di ordinaria follia: sullo sfondo c’è la collina con la celebre scritta, la stessa che sta anche sulle magliette di Dante e Francesca, e i due che sorridono con l’entusiasmo dei turisti giunti alla meta.
Proprio a Los Angeles lo ha chiamato Renzo Piano per lavorare insieme ad alcuni interventi sul nuovo Museo del Cinema, mentre fuori dal set Ferretti continua anche l’impegno al Museo Egizio di Torino, dove ha realizzato lo Statuario di cui va molto fiero: «Gli ingressi sono aumentati del 400 per cento, ho inventato l’Egitto di notte, tutto stellato, e ho messo tanti di quegli specchi...». E poi ancora c’è l’Expo di Milano 2015: «Devo vestire il Decumano e il Cardo, due chilometri e mezzo con una piazza. Ai lati ci saranno i padiglioni, mi sono inventato un esercito di statue ispirate ai guerrieri di terracotta cinesi, e poiché il tema è il cibo, sono coperte di frutta fino ai piedi, come l’Arcimboldo, tutte diverse una dall’altra. Ermanno Olmi mi ha reso felice. “Meravigliose”, mi ha detto».