Davide De Luca, Il Post 15/1/2013, 15 gennaio 2013
CETO MEDIO, SENAPIERE E FLESSIBILITA’
Non è vero che Tremonti ha portato la pressione fiscale al 44,7%, non è vero che l’OCSE sostiene che la flessibilità sia un male per il mercato del lavoro e ci permettiamo di dubitare che tutti in casa abbiano una senapiera. Sono alcuni degli errori e delle imprecisioni fatti ieri nel corso della puntata di Piazza Pulita.
Durante la trasmissione l’economista Emiliano Brancaccio ha sostenuto che l’OCSE, l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica che raggruppa la gran parte dei paesi industrializzati, ha da tempo rivisto la sua posizione sulla flessibilità del mercato del lavoro. Secondo Brancaccio oggi l’OCSE ritiene che rendere un mercato del lavoro più flessibile – possiamo definire un mercato flessibile un mercato dove è facile entrare, uscire, cambiare salario, mansione e dove la contrattazione è decentrata – non crea un aumento dei posti di lavoro come si pensava un tempo.
A quanto pare Brancaccio si riferiva a uno studio di circa 120 pagine pubblicato dall’OCSE nel 2004 (chi volesse cercare un riscontro alle parole di Brancaccio può cercare qua). Nel documento però, a noi sembra che l’OCSE dica un’altra cosa: è vero che riconsidera la sua vecchia posizione (più flessibilità uguale più lavoro), ma alla luce di due fatti distinti. Il primo: è molto difficile misurare statisticamente gli impatti della flessibilità sul numero di lavoratori. Il secondo: la maggior parte dei paesi europei – tra cui anche l’Italia – hanno aumentato la flessibilità semplicemente riducendo le protezione per i nuovi lavoratori appena entrati nel mercato del lavoro. Così facendo hanno ottenuto soltanto di rendere il mercato più diseguale e diviso tra nuovi lavoratori senza protezione e vecchi lavoratori molto tutelati.
Oscar Giannino ha sostenuto che la pressione fiscale è cominciata ad aumentare quando Giulio Tremonti era ancora ministro. Si tratta di un’affermazione che va chiarita: nell’estate del 2011 il governo varò due manovre finanziarie piuttosto dure, che però rimandavano i tagli più significativi e gli aumenti di tasse principali al 2014, un anno dopo la fine della legislatura in corso. Durante gli anni del governo Berlusconi la pressione fiscale non è aumentata significativamente.
Per vedere com’è andata basta dare un’occhiata a questa tabella di Eurostat (l’Italia è abbreviata in IT). Il primo anno di Tremonti al ministero dell’economia, la pressione fiscale (cioè il totale delle entrate fiscali di uno stato rapportato al PIL), crebbe dello 0,3%. L’anno successivo calò dello 0,5% e rimase su quel valore anche nel 2011. Sarebbe più corretto dire quindi che Tremonti non ha alzato la pressione fiscale, ma aveva previsto il suo innalzamento.
A questo proposito Mario Sechi, ex direttore del Tempo e ora candidato con le liste di Mario Monti, ha dichiarato che a causa delle manovre di Tremonti dell’estate 2011 la pressione fiscale è arrivata al 44,7%. Come potete vedere nella tabella sopra, secondo Eurostat la pressione fiscale nel 2011 era al 42,6%. Il numero citato da Sechi è la stima di Confersercenti sul livello di pressione fiscale nel 2012, a cui oltre alle manovre di Tremonti, hanno contribuito certamente anche quelle di Monti.
Come ha detto Giannino, è assolutamente vero che un’impresa italiana paga sugli utili, quindi sui guadagni finali, il 22% di tasse in più rispetto che in Germania. Qui potete trovare gli ultimi dati aggiornati della Banca Mondiale.
Vendola ha poi parlato di nuovo dei miliardi che potrebbero essere risparmiati rinunciando all’acquisto degli F35. Ne avevamo parlato già qui: il punto è che l’acquisto degli F-35 costa circa una decina di miliardi, ma si tratta di un investimento trentennale. Il suo costo annuo quindi è di circa 400 milioni l’anno. Il nostro paese non ha acquistato semplicemente gli aerei, ma partecipa al programma per il loro sviluppo e la loro produzione. Parte del denaro speso rientra in Italia tramite le industrie militari italiane che partecipano al programma (qui, qui e qui trovate un’estesa letteratura sull’argomento).
Durante la trasmissione e oggi si è parlato molto del fact-checking in diretta del ministro Barca che su Twitter ha corretto Maurizio Belpietro che aveva definito chi guadagna 100 mila euro l’anno “ceto medio”. Barca ha ricordato un’indagine di Bankitalia secondo cui risulta che soltanto 10-15% delle famiglie ha un reddito superiore ai 100 mila euro l’anno – il che quindi, le escluderebbe dall’essere il ceto medio.
Il problema è che soltanto i poveri sono definiti statisticamente. Il ceto ricco e quello medio invece no. Si appartiene al ceto medio o ai ricchi in base a una misurazione “ad occhio”. E come ha fatto notare lo stesso Formigli, sarebbe difficile definire “ricca” una famiglia che ha un reddito lordo di 100 mila euro l’anno, quindi netto al mese di 5.000 euro circa.
Concludiamo con la solita nota leggera. In studio erano ospiti alcuni operai della Richard Ginori, una fabbrica di porcellane che al momento si trova in fallimento. Per spiegare perché questa fabbrica è un eccellenza italiana che non dovrebbe fallire, Formigli ha impugnato un piatto molto decorato e un’elaborata senapiera dicendo: «Un pezzo della Ginori ce l’abbiamo in casa tutti».
Come ha fatto notare Giannino, il problema della Ginori è causato dal funzionamento del diritto fallimentare italiano: arrivati a un certo punto non è, in sostanza, più possibile salvare un’azienda anche se ci sono dei compratori interessati. Nel nostro piccolo, ci permettiamo di far notare a Formigli che noi, che non apparteniamo nemmeno a quel 10-15% di ceto medio, i piatti li abbiamo comprati all’Ikea e non conosciamo nessuno che possieda una senapiera Richard Ginori.