Sergio Rizzo, CorrierEconomia 17/06/2013, 17 giugno 2013
TROPPI VETI INCROCIATI: L’ELETTRODOTTO RESTA AL BUIO
La domanda si ripete: questo Paese è in grado di realizzare opere pubbliche con tempi e costi ragionevoli? Non parliamo di infrastrutture ciclopiche come il Ponte sullo Stretto di Messina, che ci costerà almeno un miliardo di euro per non averlo fatto, ma di lavori anche all’apparenza meno impegnativi: per esempio un elettrodotto che eviti a una delle regioni italiane con maggiore deficit energetico, cioè il Veneto, rischi di blackout.
Ebbene, quella domanda viene spontanea dopo che il Consiglio di Stato ha bloccato, a cantieri già praticamente aperti, una linea elettrica che Terna avrebbe dovuto costruire in Veneto, fra Dolo e Camin (frazione di Padova), ribaltando una precedente sentenza del Tar. La società della rete denuncia un danno clamoroso, lamentando di essere stata costretta a sospendere un investimento di 290 miliardi che avrebbe anche liberato, dice il comunicato ufficiale, 1.800 edifici dalla vicinanza di vecchie linee obsolete oltre a 720 ettari di terreno agricolo sui quali oggi gravano servitù elettriche. Non solo: dice Terna che la decisione del Consiglio di Stato potrebbe bloccare la riqualificazione dell’area di Porto Marghera e determinare per gli utenti un mancato risparmio di 40 milioni. La storia è simile a quella di tante altre opere pubbliche contestate da comitati locali e organizzazioni ambientaliste.
Proteste, riunioni, dibattiti. Alla fine il ministero dell’Ambiente dà la sua valutazione d’impatto ambientale positiva e pure il ministero dei Beni culturali concede il via libera: idem le Regioni, le Province e i Comuni. C’è però chi non ci sta, magari perché giustamente ritiene che l’opera comunque deturpi il paesaggio, e partono i ricorsi. Mettiamoci pure che alcune amministrazioni cambiano di segno politico e ribaltano le delibere adottate dai loro predecessori e il quadro è completo. La cosa finisce al Tar, che decide in un senso: l’opera è compatibile con l’ambiente. Quindi al Consiglio di Stato, che decide in senso opposto: annullando la compatibilità ambientale.
Nella fattispecie, la motivazione è che il via libera concesso in seconda battuta dal ministero dei Beni culturali sarebbe stato influenzato in maniera determinante dalle ragioni addotte da Terna circa l’impossibilità tecnica di interrare i cavi nonostante l’elettrodotto attraversi un’area importantissima dal punto di vista ambientale. Per capirci, è la zona delle ville del Brenta. Diciamo subito che qui non è in discussione il merito del giudizio. Piuttosto, è la vicenda in sé che dimostra come in Italia far partire un’opera pubblica sia come un tuffo nel vuoto. Se davvero la costruzione della linea elettrica rappresentava un danno irreparabile a quel meraviglioso scorcio del paesaggio veneto, che va ovviamente tutelato come fosse sacro, forse sarebbe stato il caso di saperlo prima dell’apertura dei cantieri di una linea elettrica la cui progettazione risale addirittura al 2002, undici anni fa. Si sarebbero potuti fermare i procedimenti autorizzativi, consentendo in tempi rapidi lo studio di un’alternativa: dato che da quell’elettrodotto dipende la sostenibilità energetica di un bel pezzo di regione. Avremmo risparmiato tempo, carte bollate e anche un bel mucchio di soldi. Perché il conto, se mai quell’opera si potrà fare, è destinato fatalmente a lievitare. E qui, inevitabilmente, si deve tirare in ballo la pessima qualità delle amministrazioni, tanto centrali quanto locali, attori protagonisti di un sistema assurdo che mentre sembra congegnato apposta per complicare la vita a qualunque infrastruttura, non riesce a impedire l’abusivismo selvaggio, la devastazione del territorio e del paesaggio nonché il consumo sconsiderato del suolo. Decine di passaggi burocratici, con pratiche che viaggiano in tempi biblici da un ministero all’altro, da un Comune all’altro; conferenze dei servizi estenuanti; procedure minuziose e interminabili. Ma alla fine, nessuna certezza.
Sergio Rizzo