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 2013  giugno 17 Lunedì calendario

MADRE, ARTE A CHILOMETRO ZERO

Andrea Viliani, direttore del Museo Madre di Napoli che venerdì prossimo (21 giugno) si appresta a inaugurare la stagione della rinascita (dopo due anni di tormenti), non ne aveva fatto mistero, quando su «la Lettura» del «Corriere» di domenica 2 dicembre 2012 aveva tracciato una serie di possibili linee guida per il Padiglione Italia della Biennale di Venezia: secondo lui un buon museo d’arte contemporanea (di fatto versione allargata di un Padiglione della Biennale) avrebbe dovuto essere in grado di «ristabilire le relazioni fra arte, storia, politica, economia, società; esplorare il problematico equilibrio fra ambiente e modernità; sovrapporre l’approccio museale archivistico e quello più performativo; restituire all’arte presente e passata una dimensione più critica e più pubblica».
Non a caso, dunque, le stesse linee guida caratterizzano ora il primo capitolo della storia del Madre, scandito dalle mostre in contemporanea su Thomas Bayrle (Tutto in uno, fino al 14 ottobre), Mario Garcia Torres (La lezione di Boetti, fino al 30 settembre), Giulia Piscitelli (Intermedium, fino al 30 settembre). Mostre che, al di là dell’evento, rientrano nel più generale progetto di ricostruzione, anche letterale, del museo (www.madre.it): fondato nel 2004, ristrutturato dall’architetto Álvaro Siza, dal 2012 tecnicamente aperto due mattine a settimana, di fatto chiuso, causa mancanza di fondi. Ma anche della sua collezione ormai ridotta alle opere site-specific del primo piano (Fango di Richard Long; 10.000 Lines di Sol LeWitt; Il cielo sopra San Gennaro di Luciano Fabro; Dark Brother di Anish Kapoor; Ab Ovo di Francesco Clemente; Spirits di Rebecca Horn) mentre le altre erano state ritirate dagli artisti. Per_formare una collezione#1 è, appunto, il titolo dell’altra mostra-manifesto della nuova era (un’esposizione in progress) che si apre anch’essa venerdì.
In questa, spiega Viliani al «Corriere», si invita in qualche modo «a fare un discorso più generale, considerando la collezione del museo come un progresso in divenire, come composizione collettiva, come luogo di una riscrittura stratificata». Oppure, in alternativa, come «raccolta di opere, documenti, testimonianze che mettono in relazione presente e passato, un luogo ideale dove raccontare una molteplicità di storie e discipline, dall’arte al teatro, dalla scrittura al cinema e all’architettura».
L’idea di Viliani è di creare una interconnessione con Napoli e la Campania («Abbiamo in programma — dice — una serie di iniziative con realtà di Salerno, Caserta, Ravello, Ischia»). Anche in questo caso non si tratta di «un’idea a effetto ma senza radici» perché «Napoli e la Campania hanno rappresentato a lungo un crocevia dell’arte contemporanea, spazio ideale di galleristi come Lucio Amelio e di critici-intellettuali-poeti come Achille Bonito Oliva. Viliani (nato a Casale Monferrato nel 1973, già curatore del Mambo di Bologna, del Castello di Rivoli, di Documenta Kassel, scelto all’unanimità dopo bando pubblico) ricorda in particolare l’esperienza di «Amalfi 68», mostra sull’arte povera realizzata nell’ottobre 1968 dal gallerista Marcello Rumma con la moglie Lia (e con Germano Celant), «una delle prime, vere, rivoluzioni culturali del Sud» che negli spazi degli Antichi Arsenali della Repubblica di Amalfi aveva messo insieme Pistoletto, Mario Merz, Giulio Paolini.
Per ricreare la collezione del Madre, Viliani idealmente richiamerà negli spazi artisti legati al territorio napoletano come «laboratorio di sperimentazione» («Le prime opere che acquisiremo saranno quelle che produrremo»): Joseph Beuys, Allan Kaprow, il Living Theatre, Joseph Kosuth, Carl Andre, Tomaso Binga, Arrigo Lora Totino. «Abbiamo chiesto alle gallerie e ai collezionisti di affidarci le opere in comodato gratuito»: un’idea legata alla spending review, «ma che permette in qualche modo di ridefinire in generale l’impostazione generale del museo, trasformandolo da minus in plus, rendendolo insomma finalmente produttivo».
Più volte Viliani gioca con le parole, tra «retro-spettiva» e «pro-spettiva», tra passato e futuro. «Sono finiti i tempi delle mostra spettacolo», in questo vicino all’idea di Pierpaolo Forte, presidente dalla Fondazione Donnaregina di cui il Museo è forse l’espressione più eclatante ma non la sola, che parla di «luogo di produzione da ripensare, narrare e su cui lavorare molto, visto che non è stato frequentato in questi anni e non ha reso economicamente e questo è un problema». Cinque milioni e mezzo di euro di budget di costi, una società di gestione come la Scabec (partecipata dalla Regione Campania al 51% e per il resto da soci privati) di cui è azionista il gruppo Electa che cura organizzazione delle mostre, comunicazione, promozione, editoria e bookshop: «un budget notevolmente ridotto rispetto ai diciotto milioni della precedente gestione».
Assieme a Baruchello, Balestrini, Fiorito e agli altri la Fondazione Madre Donnaregina si propone di «analizzare l’idea dell’arte come momento partecipativo, di azione e riflessione condivisa, puntando su produzioni e opere storiche, realizzate o mostrate proprio a Napoli a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso». Sia che si tratti di performance, happening, installazione video o film.
Che cosa spera Viliani? «Dobbiamo essere realisti. Non possiamo credere che tutto possa rinascere subito. La collezione riprenderà forma giorno per giorno, via via che avremo ristabilito un nuovo, vero contatto con il pubblico e con la città». Il sogno del Madre? «Diventare la Capodimonte del Contemporaneo».
Stefano Bucci