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 2013  giugno 16 Domenica calendario

SCRIVO PER LAVORO, SUONO PER GIOCO

Sessantaquattro anni appena compiuti, 130 milioni di copie vendute attraverso una carriera che va dal thriller di spionaggio (La cruna dell’ago, Il codice Rebecca) al romanzo storico, dal Medio Evo (I pilastri della terra) alla fine della Guerra Fredda (Edge of Eternity in uscita nel 2014) e che ha ispirato film di successo e serie televisive. «Ma quello è il mio lavoro. Il mio divertimento è la musica», sorride Ken Follett seduto sul divano della suite d’un albergo elegante di Mayfair, a pochi passi dal suo palazzo seicentesco (ha anche una villa in campagna e una ai Caraibi). Democraticamente dà del tu all’interlocutore — cioè chiama per nome e chiede di essere chiamato «Ken» — con l’orgoglio del laburista di lungo corso e la serenità di colui che sa di essere tagliato fuori dalla corsa per i titoli nobiliari, assegnati d’ufficio a scrittori largamente meno bravi di lui ma ben presenti in quel salotto buono delle lettere britanniche dal quale il suo successo immenso lo esclude a priori (una moglie ex ministro e deputato laburista invisa ai Blair non aiuta le chance di una futura nomina a Sir, e se non vincerà mai il Booker Prize, assegnato anche ad autori peggiori, è più felice delle parole lusinghiere di Oprah Winfrey, sua ammiratrice, che ha scelto I pilastri della terra come libro consigliato dal suo amatissimo programma tv).
L’etica del lavoro da scrittore straordinariamente prolifico (due, massimo tre anni per consegnare libri di mille pagine pieni di riferimenti storici) conosce però una pausa: al lunedì sera avvita il cappuccio alla bella stilografica nera, chiude il quaderno a righe degli appunti (eredità degli anni giovanili da giornalista), spegne il computer portatile Toshiba e va a provare con la sua band.
Si chiamano «Damn Right I Got the Blues», lui suona il basso e canta, il repertorio è quello dei grandi classici del blues e del rock che lo fecero innamorare della musica da ragazzo, e Follett sta per arrivare in Italia, a Positano, per aprire il Festival «Mare Sole e Cultura» domenica 30.
«Non ho mai studiato formalmente musica — spiega — ma sono nato in una famiglia molto religiosa, circondato dalla musica sacra. Per me da bambino la musica erano solo gli inni sacri, la mia famiglia era molto rigida e sobria, niente canzonette e niente film, niente intrattenimento "leggero". Ma in tutte le case a quei tempi c’era un pianoforte, e imparai da solo, a orecchio, a suonare. Stesso discorso quando, a 14 anni, cominciai a strimpellare la mia prima chitarra, comprata di seconda mano. A quei tempi l’idolo era Bob Dylan e la musica dei ragazzi era il folk americano, Blowin’ in the Wind per capirci, musica che più avanti capimmo essere una forma molto astuta di pop acustico… Insomma, strimpellai e basta finché un parente della mia prima moglie non mi insegnò a suonare un po’ meglio, ma la svolta musicale c’è stata negli anni Ottanta, quando con mio figlio Emanuele ci divertivamo a suonare i successi dei Beatles in famiglia. Diventammo più bravi, trovammo un batterista e cominciammo a suonare nei pub. La band è diventata una band vera, e ci esibiamo in pubblico 4 o 5 volte l’anno. Siamo stati in Italia, mai a Positano. Ci divertiremo».
Non farebbe scambio tra la sua carriera di superstar della narrativa — il ristrettissimo club di chi ha venduto oltre 100 milioni di copie, che tra i viventi comprende Stephen King, J. K. Rowling, Danielle Steel, Dean Koontz, Jackie Collins, John Grisham, Patricia Cornwell e James Patterson — con quella di superstar della musica. Lo stilista sir Paul Smith, suo connazionale e grandissimo fan del ciclismo, vacilla quando gli si chiede se scambierebbe la sua vita con quella di un vincitore del Giro o del Tour, ma Follett sorride: «Fare cambio con una rockstar? Ci ho pensato, ma da bambino sognavo di fare lo scrittore, non il cantante. Mi piace quel che faccio, la musica resta un divertimento: c’è solo una cosa che manca agli scrittori se li paragoniamo ai cantanti — dice con humour —. Be’ veramente sono due: da ragazzo avrei detto le groupie. Anche noi scrittori abbiamo delle ammiratrici ma tendono a essere più mature di quelle che si strappano le vesti ai concerti rock… La differenza vera è che uno scrittore lavora da solo, chiuso in una stanza, creando personaggi e ascoltando voci nella sua testa. Vediamo il pubblico, cioè i lettori, fugacemente dopo la pubblicazione di un libro per firmare le copie, poi più nulla fino al libro successivo. Ecco, essere sul palco e vedere la gente che si entusiasma mentre suoni, non c’è bisogno che si tratti di uno stadio pieno, basta un pub, quella è una cosa unica che hanno i musicisti e che agli scrittori è preclusa. Certo sarebbe buffo vedere scene d’isterismo e transenne fuori dalle librerie».
C’è una trappola comune però, spiega, per gli scrittori di successo come per le band: «L’editore o la casa discografica tendono a chiederti una replica del successo precedente. Stesso genere, per non confondere il pubblico. Questo da una parte genera i brand letterari, crei un personaggio di successo e da quello poi non ti stacchi più e se ci provi ti castigano come è successo a J. K. Rowling dopo Harry Potter. E se la creatività diminuisce? I Rolling Stones a mio modo di vedere hanno fatto l’ultimo disco davvero bello, all’altezza della loro grandezza, nel 1981. E adesso? Possono fare la cover band dei vecchi successi a vita. Uno scrittore non può permetterselo. Quando dissi al mio editore che invece di una storia di spionaggio volevo scrivere un romanzo storico di mille pagine ambientato nel Medio Evo, con una miriade di personaggi incentrato sulla costruzione di una cattedrale (sul suo sito www.ken-follett.com c’è, tra le moltissime informazioni utili, anche un grafico-mappa per aiutare il lettore, ndr) ho visto facce preoccupate. Una bella spy story avrebbe fatto contenti tutti, no? Poi però I pilastri della terra è andato come sappiamo… Io amo Ian Fleming, ma lui sempre a scrivere di 007 si era terribilmente annoiato; cercava di uscirne, però il pubblico quello voleva. Vedi anche Arthur Conan Doyle. Ammazzò Holmes e dovette farlo resuscitare».
Non ha complessi da scrittore «di genere», ricorda sempre che da Greene a le Carré (che ammira, specialmente per La spia che venne dal freddo, «un capolavoro, indiscutibilmente, ma non è la mia tazza di tè») chi scrive di spionaggio finisce fuori dal perimetro amato da critici e accademia (e su le Carré fa notare con acume notevole come «il tradimento — della patria, sulla carta — cela sempre in modo molto inglese una dimensione più intima: l’amore, la malinconia»). Fa slalom tra thriller e romanzo storico, ma ha grande rispetto per chi come Danielle Steel pubblica due libri d’amore all’anno, da una vita, senza perdere l’attenzione del suo pubblico, ripete che anche il suo eroe Charles Dickens era considerato, da vivo, uno scrittore popolare di storie un po’ trash. E se per Follett l’autore più amato di sempre è Jane Austen, tra i contemporanei a sorpresa sceglie un connazionale: Lee Child. «Quello dei romanzi di Jack Reacher. Fantastico scrittore, non ha scritto un brutto libro. Io per esempio sono arrivato al successo con il mio decimo romanzo, delle prime opere ce ne sono tante che ho sepolto con piacere. Mi è piaciuto anche il film con Tom Cruise dell’anno scorso. Ecco, Reacher nei libri è un colosso, invece Cruise è un uomo più piccolo, eppure funziona benissimo. Il cinema è un altro medium, a me fa piacere quando un regista cambia un mio libro, se poi il risultato funziona. Gli scrittori si lamentano ma non si può filmare una frase. Stesso discorso per internet, io lo adoro, un pozzo senza fine di scoperte, specie per chi come me deve fare tante ricerche per il suo lavoro. Benissimo anche gli ebook».
Per gli ebook vale, spiega, il discorso che fa per la narrativa popolare: «Come scrittore quel che mi importa è il coinvolgimento emotivo del lettore, pagina dopo pagina. Non viviamo sulla luna, i libri hanno la concorrenza di tanti media più aggressivi. Chiunque convinca una persona a aprire un libro o accendere un lettore di ebook, invece di guardare un film o uno di quegli spassosi video di YouTube, fa una cosa molto bella, un servizio alla cultura senza dubbio».
L’anno prossimo Mondadori — che pubblica tutti i suoi libri in Italia, fin dall’inizio — farà uscire l’ultimo capitolo della Century Trilogy (che segue cinque famiglie attraverso il Novecento, dalla rivoluzione russa alla fine della Guerra Fredda), dopo La caduta dei giganti del 2010 e L’inverno del mondo dell’anno scorso. Edge of Eternity accompagnerà il lettore dalla Baia dei Porci fino alla caduta del Muro.
«Mi è piaciuto tanto ripercorrere gli anni Sessanta, quelli del mio impegno giovanile contro la guerra. Ecco, io ero in strada, qui vicino, dove c’è l’ambasciata americana, a protestare contro la guerra in Vietnam e a gridare con i miei coetanei “Hey, hey, LBJ, quanti ragazzi hai ammazzato oggi”. Ma il presidente Johnson, LBJ, fu anche colui che dopo la morte di Kennedy prese in mano la legislazione per l’abolizione della segregazione razziale negli Stati del Sud degli Usa e la fece passare al Senato. Maestro della trattativa, politico di statura enorme. Non solo l’uomo del Vietnam. Quando faccio le mie ricerche, mi piace scoprire cose che non sapevo. La Storia riserva tante sorprese».
Ha scritto dell’Afghanistan in passato (con un personaggio che ammoniva, nel 1984, «speriamo che i mujahedin non prendano mai il potere»), ma la guerra in Iraq non lo ispira. «Perché Blair decise di seguire un presidente disastroso come George W. Bush? Magari la motivazione è molto sinistra, ma forse semplicemente ha scelto la parte degli avversari del fondamentalismo islamico pensando che sarebbe andato tutto bene. E se fosse andata male, come poi si è verificato, lui si sarebbe salvato con un’autobiografia pagata molto cara da un editore e facendo discorsi a pagamento in giro per il mondo. Non lo so, davvero. Quel che so è che il periodo che più mi affascina e mi ispira è la Seconda guerra mondiale, senza paragoni. Cosa ho scoperto? Che Clement Attlee fu il più grande primo ministro del Novecento dopo Churchill e uno dei più grandi di sempre, un gigante dimenticato, padre del nostro Welfare smantellato dalla signora Thatcher». E rivalutare la Lady di Ferro come rivalutò Lyndon Johnson? Qui Follett ride irrefrenabilmente: «Oh no, oh no… Direi che non c’è revisionismo storico che possa farmi classificare Margaret Thatcher come qualcosa di diverso da un orco».
Matteo Persivale