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 2013  giugno 16 Domenica calendario

UN BIMBO A DIECI MESI DISTINGUE BENE E MALE (E SCEGLIE IL PRIMO)

Per capire il senso di un ingegnoso e semplice esperimento su bimbi piccolissimi, appena pubblicato da Yasuhiro Kanakogi dell’università di Kyoto in Giappone, e riportato sull’ultimo numero della rivista scientifica internazionale online Plos One conviene fare un passo indietro.
In un classico saggio del 1946, lo psicologo belga Albert Michotte persuase definitivamente il mondo degli studiosi che molto spesso noi letteralmente e direttamente percepiamo la causalità. Il titolo originale francese del suo libro è, infatti, «La Perception de la Causalité». Questo concetto, centrato sulla nostra ben dimostrabile intuizione immediata e diretta di molti semplici processi causali, si contrappone alla teoria avanzata a suo tempo dal filosofo inglese empirista David Hume, il quale sosteneva, in essenza, che la causalità è il risultato di un vero e proprio ragionamento, certo, basato su quanto si osserva, ma con in più almeno un pizzico di raziocinio e di induzione.
Le chiavi di volta degli esperimenti di Michotte, e di tanti altri più recenti, effettuati da molti psicologi nella sua scia, sono il tempismo e la pura geometria. Mi spiego: osservando un cerchio che colpisce un altro cerchio e quest’ultimo, sotto l’impulso di tale scontro immediatamente si mette in moto, noi vediamo che il primo ha causato lo spostamento del secondo. Una semplicissima ed efficiente dimostrazione è disponibile sul sito internet http://cogweb.ucla.edu/Discourse/Narrative/michotte-demo.swf. Che si tratti di due cerchi non ha niente di speciale, perché l’effetto si riproduce identico con triangoli, quadrati o altre figure semplici, comunque colorate. Dicevamo che, come ben sottolineato da Michotte, il tempismo è essenziale. Se anche un solo secondo trascorre tra l’urto e il movimento dell’altro cerchio, la percezione della causalità svanisce. Il secondo cerchio ci pare muoversi per conto suo, su sua propria (per così dire) iniziativa e volontà. Equipaggiati come adesso siamo con schermi di computer, gli esperimenti possono essere variati a piacere. È facile far percepire (sottolineiamo questo concetto), per esempio, un cerchio verde che «insegue» un triangolo rosso, un cubo blu che cerca di «sfuggire» alla «caccia» di una sfera bianca, un rettangolo blu che sistematicamente «ostacola» il movimento di un triangolo giallo e chi più ne ha più ne metta.
Ebbene, i cognitivisti dello sviluppo si sono chiesti a che età comincia questa percezione diretta della causalità. La risposta, fino ad oggi, era che il processo è già ben presente quando si riesce a chiedere al bimbo cosa pensa di quanto vede sullo schermo e se ne ottiene un commento verbale. I loro commentini esprimono proprio verbi come, spingere, colpire, cacciare, fuggire e impedire, senza virgolette. Adesso l’età scende ulteriormente, a 10 mesi di vita e la percezione si indora di connotati sociali e di empatia. Infatti, gli psicologi giapponesi hanno mostrato che il bimbo di soli 10 mesi, non solo percepisce, tra un cubo giallo e una palla blu, una relazione di caccia e fuga, ma addirittura di prepotenza e bullismo.
Stando alla relazione pubblicata da questi studiosi, l’empatia che il bimbo sente per la figurina vittima viene mostrata dal loro tentativo di prenderla in mano. Forse qui dovremmo mettere delle virgolette intorno a «vittima» e «bullo» perché questi non sono certo concetti e termini esplicitamente forniti da questi piccolissimi bimbi. In altre parole (le nostre) i bimbi tentano di cogliere e probabilmente proteggere e consolare la vittima, ma mai il bullo tormentatore, sia esso la palla o il cubo. L’articolo ora pubblicato dichiara aver individuato le radici primigenie dell’empatia e del senso di giustizia. Dopo che il neuropsicologo franco-americano Jean Decety aveva mostrato le radici evolutive dell’empatia nei ratti, come ho avuto modo di riferire (31 Gennaio 2012) su queste pagine (mi perdoni l’insigne amico Giacomo Rizzolatti, che ha criticato questo esperimento e il fatto che ne ho riferito sul «Corriere»), adesso se ne mostrano le radici nel primissimo sviluppo della nostra specie. Tali vaste e lungimiranti conclusioni sono sempre soggette a distinguo, dubbi e critiche, quindi aspettiamo di vederne conferma. Ma non mi sembra ci sia niente di male, nell’attesa, a rallegrarci timidamente un po’, solo un po’, che la nostra più profonda natura biologica alberghi tali nobili istinti.
Massimo Piattelli Palmarini