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 2013  giugno 16 Domenica calendario

LA NOSTRA EDITORIA MORIBONDA


Disclaimer: niente di quanto leggerete di qui alla fine di questo pezzo può sorprendervi, perché siete italiani, potete però meravigliarvi che anche i libri, che dovrebbero essere portatori di un’etica legata alla cultura, siano strumenti di un complesso raggiro oggi giunto, forse, al capolinea.
Non siamo autorizzati a credere che abbia diritto alla sopravvivenza solo perché il suo ambito di pertinenza è la cultura. Del resto a volte l’estinzione è il metodo migliore per ridare fiato a un ecosistema. L’editoria libraria italiana è moribonda per tanti motivi, tra i quali ce ne sono alcuni oggettivi, altri che appartengono alla tipica furbetteria locale.
Intanto bisogna sgombrare il campo dall’idea che da noi con i libri ci lavori solo gente intelligente, colta e inappuntabile. Di intellettuali fané alla Calasso ne sono rimasti pochi, travasati da un passato che non esiste più. È il segno dei tempi, lo spirito manageriale ha preso il sopravvento, l’idea che con i soldi che circolano in casa editrice ci si possa fare anche altro non è una scoperta per nessuno: scatole cinesi con passaggi di denaro più o meno puliti che vedono nelle acquisizioni il loro cavallo di battaglia. Per fare un esempio non troppo lontano, appena dopo la metà degli anni Novanta esplodeva il bubbone delle perdite generate dal settore libri del gruppo Rcs, circa 800 miliardi di lire, una vicenda figlia di un sistema truffaldino che ci ricorda che politica e oligarchie finanziarie oggi possono tutto, specie trovare metodi «onesti» per rubare. Non è una novità.
Andando con ordine, è possibile elencare i fattori che hanno determinato la crisi dell’editoria libraria italiana oggi? Ecco alcuni punti, che forse non sono tutti ma sicuramente danno un’idea. Primo e di base: un taglio alla radice. Abbiamo una disincentivazione della lettura nella scolarizzazione, cresce l’analfabetismo di ritorno, cioè l’incapacità di comprensione minima di un testo, e, come una malattia endemica che sembrava debellata ma il cui virus covava nell’ombra, è riapparso l’analfabetismo vero. A scuola, fino a tutti gli anni Settanta, si trasmetteva il concetto che la cultura fosse la base di un’emancipazione sociale, dopodiché si è passato a urlare che lo sono i beni di consumo. Il progetto di una popolazione incapace di interpretare la sfera sociale in cui vive è il presupposto dell’affermarsi di ogni dittatura. E quelle dell’Occidente contemporaneo sono più raffinate che nel passato, hanno imparato a essere discrete: si ammantano d’invisibilità.A seguire: sempre meno fondi per le biblioteche e meno acquisizioni. D’altra parte se uno crepa e lascia i suoi volumi a una biblioteca, la metà viene buttata perché sono dei classici (e non c’è spazio per dieci copie de I fratelli Karamazov, per fare un esempio) gli altri creano grande imbarazzo perché vanno catalogati: se sono d’epoca pre-codice a barre il lavoro si allunga e non c’è sufficiente personale per farlo; quindi vengono messi nelle cantine. Ergo, le biblioteche dovrebbero assortire i libri regolarmente, ma il denaro scarseggia, oltre che spesso, per la stessa ragione, la carta igienica nei bagni, il che le accomuna alla scuola dell’obbligo.
La distribuzione in libreria è completamente in tilt: per anni i distributori e i librai sono stati costretti a veicolare per il 90% i libri dei grandi gruppi, con un sistema finanziario più spaventoso di quello dei future. Libri sostituiti continuamente quando invenduti con qualche best-seller che recuperava i conti: in periodo di crisi il meccanismo si è bloccato. E anche le catene librarie, che, a discapito soprattutto dell’editoria indipendente, non hanno mai tenuto nei negozi tutte le uscite ma solo un ristretto numero di titoli dei soliti noti per fare fatturato, oggi si trovano al palo. In epoca di crisi il lettore occasionale è il primo ad aver ceduto, mentre il lettore forte ha bisogno di un libraio esperto che sappia essere interlocutore delle sue passioni di lettura.
Gli strumenti nazionali di promozione del libro premiano chi è più scaltro (eufemismo): è quasi umoristico, oltre che emblematico, il caso del volume Rizzoli Fumetto! finanziato dal comitato dei 150° dell’Unità d’Italia: peccato che il fumetto nasca nel 1896 negli Stati Uniti e se vogliamo essere approssimativi in Italia appaia all’inizio del Novecento (e stendiamo un velo pietoso sul contenuto del volume, a cui incautamente, e pro bono, ha partecipato anche il sottoscritto). Ovvero, i soliti potentati editoriali, legati in linea diretta con quelli politici, si mettono d’accordo per sfruttare l’opportunità di far circolare del denaro pubblico in casse private. Al contrario un romanzo o un graphic novel prodotto qui da un piccolo editore investendo e rimettendoci del suo può essere tradotto da un altrettanto piccolo editore francese con il sostegno dell’Istituto del libro.
Rcs libri è stato fino a poco più di un anno fa, prima di riunirsi per questioni di costi nel palazzo Rizzoli di Crescenzago, in un palazzo sito in via Mecenate a Milano appartenuto nel periodo bello del così detto «collezionabile» (ovvero le enciclopedie a dispense e le grandi opere a rate) alla Fratelli Fabbri Editore. I piani erano grandi open-space in cui le aree erano suddivise soprattutto da grandi armadi/archivi di metallo. Frequentandoli per lavoro nel corso degli ultimi venti anni mi è capitato di vedere apparire sulla moquette progressivamente sempre più aree chiare: intere filiere della produzione sparivano, insieme agli armadi, fino a che gli ultimi sopravvissuti stavano rintanati negli angoli dei piani.
È un po’ la metafora del cambiamento dei processi editoriali: i primi a essersene andati sono stati appunto i fotocompositori, i personal computer li hanno resi obsoleti. Poi tutti i processi esternalizzabili, con i relativi lavoratori, dalla semplice correzione bozze alla redazione sono stati smantellati e affidati a service esterni. Naturalmente la qualità aveva già smesso di essere un problema da tempo, ma va riconosciuto che esistono anche service con competenze molto elevate. Ciò per spendere meno e, non secondario, mantenere i privilegi economici dei vertici aziendali, dirigenti che prendono stipendi paragonabili per esempio a quelli dei loro corrispondenti alla Fiat (perdonate il parallelo infelice e del tutto casuale...). Per quanto ci sia una rincorsa del taglio dei costi del lavoro altrui, il meccanismo si è accelerato così velocemente che tagliare non basta, non basterà mai. È una rincorsa impossibile. Come si fa, per ipotesi, a sostenere un direttore editoriale dei volumi economici che magari prende 150mila euro all’anno (un’iperbole? Anche se fossero la metà i conti non tornerebbero comunque) con volumi che vanno al pubblico a 10 o meno euro l’uno? Non ci vuole un economista per fare il calcolo.
È interessante vedere quante di queste persone hanno amicizie o parentele illustri, per cui occupano posti di rilievo al di là dei loro meriti effettivi e delle competenze maturate e in alcuni casi sorprende l’applicazione del passaggio ereditario degli incarichi da padre in figlio, o a da zio a nipote, e soprattutto la capacità cangiante per cui transitano dai posti di vertice di una casa editrice a quelli di un’altra non grazie a un processo di ricerca di dirigenti che funzionano, ma avendo spesso prodotto disastri e abbandonando la barca prima che la falla la faccia inclinare.
Per anni alcune grandi case editrici sono state finanziate dalle banche. Pagare gli interessi passivi è una voce debitoria che il libro sostiene difficilmente, ma non è mai stato un problema perché se ne occupava il politico di turno. Basta scorrere i cataloghi per capire chi sono o sono stati i politici che si sono adoperati affinché alcune case editrici ricevessero fidi e finanziamenti improbabili. Ho pensato che fare una storia dei volumi inutili scritti dai politici (e dei loro romanzi che sono la punta di diamante del pensiero debole e della scrittura insulsa) sarebbe forse un bel ritratto della degenerazione della coscienza collettiva e dell’utilizzo della lingua italiana, ma questa è un’altra storia. Poi magari è capitato che quel circolo vizioso del denaro: «ti faccio avere un fido, mi fai il libro e poi magari fai rientrare qualche soldo al partito sotto forma di finanziamento, non preoccuparti, non te li chiederanno mai indietro»; si sia spezzato e adesso quei soldi debbano rientrare. Nessun problema, si chiude la casa editrice, si lasciano i debiti a collaboratori, aventi diritto e tipografi e si riapre con un altro nome simile, così il lettore ci riconosce. Tanto una società a responsabilità limitata, ovvero «srl», in Italia permette questo e altro. Mentre il tipografo magari fallisce e il collaboratore oltre ad aver perso lavoro non ha i soldi con cui doveva vivere, l’editore in questione ha salvaguardato il suo patrimonio privato accumulato in anni di soldi facili e si può permettere di ricominciare a suo piacimento.