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 2013  giugno 16 Domenica calendario

VIAGGETTO NEL MEDIOEVO (E RITORNO)

Dunque. Sono appena arrivato dall’aeroporto di Marsiglia, dove mi aspettava un autista che mi ha portato fin qui. La cerimonia avrà luogo domani. Sono le quattro di pomeriggio di una calda giornata di giugno, e devo decidere come impiegare il tempo. Il posto è bellissimo: siamo nella campagna del Sud della Francia, nei dintorni di Alès, ai piedi della catena montuosa delle Cévennes – che si staglia, bluastra, all’orizzonte verso nord –, in piena Linguadoca, già Occitania ma non più Provenza, né Camargue. Antico luogo di culti preistorici, è stato il rifugio dei templari e, nel Settecento, il baluardo della resistenza protestante dei camisards, cioè degli ugonotti, durante la violenta repressione operata da Luigi XIV contro i protestanti francesi. Leggo queste informazioni sulla brochure del bed & breakfast dove sono alloggiato, il Comptoir Saint-Hilaire (Chemin du Mas de la Rouquette, 30560 Saint-Hilaire-de-Brethmas), in realtà un relais elegantissimo, ricavato in un’antica fattoria in pietra calcarea circondata da vigneti, dotato di piscina, campo da tennis, connessione internet senza fili eccetera eccetera. Ce ne sarebbe abbastanza per dichiararmi stanco del viaggio e buttarmi a leggere sul bordo della piscina, fare merenda coi dolci che ho visto sfavillare in cucina, navigare in rete e riposarmi, aspettando dolcemente l’ora di cena, quando verrò raggiunto dai membri della giuria che ha premiato il mio libro. Ma lo splendore estivo del pomeriggio, unito all’ignota bellezza di questa regione, molto poco conosciuta in confronto al suo celebre vicinato, mi spinge a seguire il consiglio che ho letto sulla brochure, e interrogare Yollène, la proprietaria, «la cui conoscenza dei dintorni – c’è scritto – vi permetterà di fare la scelta giusta».
«Madame Yollène, cosa posso fare da qui all’ora di cena? Cosa mi consiglia di andare a vedere?».
Yollène, una bella donna sulla cinquantina, dagli occhi felini, i tratti minuti e i modi raffinati, guarda l’orologio a muro – le quattro e mezzo – e poi si mette a pensare, portandosi la mano alla bocca e alzando lo sguardo verso l’alto. Pochi secondi e ha deciso. «Venga», mi fa, invitandomi a seguirla in giardino, dove un’immensa quercia ombreggia il prato che sovrasta la piscina, facendone una veranda naturale. «Per il Duché d’Uzès è troppo tardi, ormai, perché è a trenta chilometri», mi dice, «e lo stesso, purtroppo, per la bambusaia di Anduze, che è meravigliosa ma ne dista diciassette. Alès sarebbe alla portata, ma ci andrete domani sera dopo la cerimonia. Non resta che Vézénobres». Sorride. «Sei chilometri. Un’ora di cammino». Cioè, con tutta la naturalezza di questo mondo, Yollène mi sta parlando di cammino a piedi, cosa che non avevo minimamente messo in conto. Pensavo a un taxi, io, o magari a un’auto presa a nolo, o a qualche abitante del luogo che mi portasse in giro per qualche decina di euro; ad andare a piedi non ci avevo proprio pensato. Tuttavia questa donna lo considera talmente scontato che mi vergogno a spiegarle il malinteso, e mi faccio dire due parole sul posto che mi consiglia, mai sentito nominare prima: Vézénobres. Si tratta, mi dice, di un borgo medievale molto ben conservato, situato sulla sommità di una collina, con un castello trecentesco in rovina ma molte costruzioni di quello stesso periodo ancora normalmente abitate. E un bel posto, mi assicura, ma soprattutto è molto bello il cammino per arrivarci, tutto tra i campi e le vigne, per sentieri comodi dove non passa nessuno. «E come faccio per andarci?» chiedo. Yollène alza il braccio e mi indica davanti a sé, dove ci sono solo campi, alberi, vigneti, e nessun borgo medievale. «Là», fa, «verso sud, oltre quel colle, dritto per dritto. Non si può sbagliare». Controllo le scarpe, potrebbero essere una buona scusa per rinunciare, e restarmene a farmi coccolare nelle mollezze di questo bel relais: ma combinazione sono da trekking, con una bella suola di gomma scolpita, e allora, visto che non ho scuse, ringrazio e parto. Così, ale, senza una cartina geografica, senza una bottiglia d’acqua, niente. Solo il numero di telefono di qui, 04 66308265, che Yollène mi scrive a penna sul taccuino, giusto nel caso mi trovassi in difficoltà. «Ma non ne avrà bisogno», garantisce.
E via, comincia in questo modo il viaggio più inatteso, sorprendente e vago della mia vita. Cammino ripetendomi mentalmente il nome del borgo dove sono diretto – Vézénobres, Vézénobres, Vézénobres... –, per avere almeno qualcosa da chiedere nel caso mi perdessi. Anche perché dritti qui non si può proprio andare: i campi sono disegnati da stradelle bianche, strette e ben battute, ma sempre sinuose, piene di curve e di bivi che prendo un po’ a caso, perché nessuno mai punta dritto verso sud; così, dopo un quarto d’ora di cammino, il relais ormai scomparso alle mie spalle, ancora nulla di simile a un borgo medievale davanti a me, ho già l’impressione di essermi perso. E ora? Non c’è anima viva, qui, non un punto di riferimento per orientarsi: magari a forza di prendere bivi a sentimento sto andando nella direzione opposta. Poi però penso: al diavolo, e anche se fosse? Mica devo andare per forza a Vézénobres. Anche se mi fossi già perso, dico, che problema sarebbe? Non corro nessun pericolo, e in un modo o nell’altro prima del tramonto riuscirò a tornare al relais. Basta questo pensiero a cambiare radicalmente il mio stato d’animo e a guidare i miei passi secondo l’unico criterio sensato: dove vado vado, l’importante è godersi questa camminata per quello che è, un dono del caso. In effetti il paesaggio è strepitoso: sono cominciati i vigneti, il caldo ha mollato la presa, c’è una brezza che increspa le chiome degli alberi e in tutto il giro d’orizzonte non c’è un solo odore o rumore o colore che non concordi con l’impressione di essere un viandante di tre, quattro, cinque secoli fa. Non si vedono strade asfaltate, per dire, né macchine. Solo rondini che gridano, stormi di cornacchie, fumi bianchi che s’innalzano nel cielo. Una lepre che mi taglia la strada, a un certo punto, dei cavalli in un recinto. Un cane che abbaia in lontananza.
Mi metto a camminare tra i filari. So che c’è il Rodano, da qualche parte, qui vicino, verso est, e dunque c’è il caso che quello che verrà da questi tralci ancora verdi sia uno dei migliori vini rossi del mondo. Faugères. Fitou. Coteaux du Languedoc. Questa roba qua. Torno sulla strada, la lascio di nuovo per attraversare altri vigneti, e intanto scendo per il leggero pendio di questo colle, verso una fattoria. Quando passo davanti all’aia, una donna mi guarda senza sorpresa, come se fosse normale vedermi qui. C’è un ruscello con un esile ponte di legno, dopodiché il pendio torna a salire dolcemente, mentre il sole, invece, ancora alto, comincia pigramente a scendere, allungando le ombre.
Mi accorgo che non ho più pensieri. Sono qui, cammino di buon passo ripetendomi il nome del paese dove sono diretto come fosse un mantra, sincronizzo il respiro sulle sue tre sillabe e osservo queste contrade sature di storia, godendomi tutte le analogie con la campagna toscana: i colori sono gli stessi, il paesaggio è egualmente curato e mosso, ma qui è più ampio, più dilatato, tutto sembra stare alla giusta distanza da tutto, e il risultato è una maggiore purezza. Finché, raggiunta la sommità del colle che da tre quarti d’ora chiude il mio orizzonte, vedo il paese arroccato sulla cima di quello successivo. Eccola là, la mia meta: Vézénobres. Ricomincio a scendere, attraverso uno sbuffo di bosco buio e profumato, dopodiché la strada – sempre sterrata, sempre liscia e sinuosa – comincia a servire abitazioni più impegnative e moderne, lampantemente borghesi: ampi giardini con le altalene e i giochi disseminati sull’erba, piscine gonfiabili, bambini che giocano, cucce di cani, station-wagon parcheggiate davanti al cancello. E il segno che la cavalcata nel passato sta per finire, e infatti dopo una curva ecco apparire la strada statale col suo manto nero come liquirizia.
Ne percorro poche centinaia di metri, fino al bivio che indica Vézénobres, dove parte la strada molto più stretta che porta al paese: prima sale piano e poi s’impenna di colpo, proprio quando comincia ad attraversare le prime case. E un borgo medievale classico, incombente, acciottolato per terra e muri a retta contro il fianco della collina. Archi. Case di pietra meticolosamente restaurate. Imposte verdi. Grondaie di rame. Cascate di edera che piovono giù dai muri altissimi. Di nuovo, sembra di essere in un qualsiasi paese della Toscana: in particolare mi viene in mente Castelnuovo dell’Abate, in Val d’Orcia, vicino a Montalcino, dove ogni 10 di maggio c’è la processione della Madonna di Sant’Antimo che dal paese scende giù per stradine identiche a queste fino all’abbazia benedettina, edificata non a caso da monaci francesi sul calco di quella di Cluny. Qui non c’è nessun gioiello del genere nei dintorni, solo il castello – eccolo lassù –, un rudere coi muri sbrecciati che si stagliano nell’azzurro, ma l’impressione è proprio quella di essere a casa. È il miracolo del Medioevo, che affratella e protegge.
Un po’ di Francia riappare nella Grand Rue, sulla quale sbuco d’improvviso, sudato e un po’ ansimante perché gli ultimi metri su per i gradoni sono stati duri: bar coi dehors sotto le tende verdi, chiesette romaniche, indigeni dai tratti manifestamente gallici, bacheche zeppe di annunci di iniziative turistiche, anche se di turisti qui ci sono solo io. Arrivo nella piazzetta della Mairie e mi siedo al tavolino di uno dei due caffè: Le Grenier d’Aladin. L’altro, sul lato opposto, si chiama Lefebvre Marie e sembra più carino, ma il sole calante proietta una perfetta diagonale d’ombra che divide in due la piazza, e io voglio stare al sole. Ho una gran sete, e ordino una delle birre più meritate della mia vita. Insomma, ce l’ho fatta. Un animale domestico, urbano, metropolitano, poco avvezzo alle prodezze fisiche e in particolare alle camminate che vanno di moda adesso, si sente a casa in un paese straniero dopo essere arrivato a piedi in cima a un borgo sconosciuto, proveniente da un paese sconosciuto, attraversando una campagna sconosciuta, e questo animale sono io. Sono le sei e un quarto, ci ho messo quasi due ore: non ho tempo di visitare il paese, devo rimettermi subito in cammino per tornare indietro se non voglio correre il rischio che minaccia noi viandanti medievali, essere sorpresi dall’oscurità. C’è il tempo però di ritornare in me per qualche istante, ricordarmi che ho una moglie a Roma incinta di sette mesi, e un telefonino in tasca per chiamarla. Un lampo di modernità che in questo momento ci sta bene, perché lei è l’unica cosa di cui senta la mancanza, in questo pomeriggio sorprendente. Chissà se riuscirò a spiegarle come sto bene.