Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 16/6/2013, 16 giugno 2013
I LUNEDÌ DEL CRITICO
Pioveva la mattina in cui Augustin de Sainte-Beuve doveva battersi in duello. Malgrado le proteste dello sfidante e dei padrini, il critico, per tutta la durata dello scontro, aveva tenuto in mano un ombrello per ripararsi dalla pioggia. «Va bene essere ucciso, ma non voglio essere bagnato!». In quell’ostinazione c’è tutto Sainte-Beuve, la sua riluttanza a farsi trascinare dagli eventi e dai sentimenti di un’epoca appassionata ai limiti della retorica.
Pur aderendo al romanticismo aveva sempre rigettato l’attrazione del movimento per il misticismo e la monarchia. «La verità, nient’altro che la verità», era il motto di un uomo che non perdeva occasione di sottolineare, che il «de» del cognome non era aristocratico.
Malgrado qualche apprezzamento, le sue poesie, come più tardi il suo romanzo, non avevano avuto un vero successo e Sainte-Beuve aveva fortunatamente finito per concentrarsi sulla critica. Era stato lui a imporre come poeta l’amico Victor Hugo e a facilitargli il difficile passaggio dalla monarchia alla repubblica.
Probabilmente una sensazione d’ingiustizia nella disparità delle loro sorti lo aveva spinto a sedurre Adèle, la giunonica, bellissima sposa di Victor. Sola, annoiata dagli ardori frettolosi del marito, si era lentamente lasciata affascinare da quel giovanotto bruttino, riservato al punto da sembrare misterioso. I due si giuravano eterno amore e s’incontravano in piccoli alberghi. Una sera Hugo li sorprese mano nella mano. Fu Adèle a confessare. Victor cacciò di casa il traditore. Secondo i più Adèle H., la figlia celebrata da Truffaut, era nata da quella relazione. Victor non perdonò mai alla moglie, ma essendo anche un opportunista, non ruppe mai con quel potentissimo critico.
Da una serie di lezioni sui giansenisti nacque il possente Port-Royal (Einaudi), storia di un’ostinata resistenza interiore al potere del Re Sole. A trentasei anni, mentre i romantici avevano fatto carriera, alcuni diventando persino ministri, Sainte-Beuve viveva come uno studente al quarto piano in due minuscole. L’entrata era talmente stretta che un giorno un amico era rimasto incastrato e aveva perso i bottoni cercando di liberarsi. «Non ero nessuno». Aveva accettato con gioia, nel 1840, la nomina alla Bibliothèque Mazarine. Quando, nel 1844, entrò all’Académie française, toccò a Hugo riceverlo, «questa circostanza piccante rese la seduta più interessante». Sempre più scettico, non si lasciò attrarre dalla rivoluzione del 1848. Girava per Parigi con l’inseparabile ombrello osservando imparzialmente gli scontri.
Sainte-Beuve frequentava i salotti senza preoccuparsi di assumere un aspetto elegante. Preferiva i boudoir del Settecento che frequentava nelle sue pagine, contendendoli all’oblio che stava per divorarli. In un secolo in cui le descrizioni paesaggistiche erano molto apprezzate, si concentrò sui ritratti, un genere considerato minore anche in pittura. Proust che scrisse il famoso Contro Sainte-Beuve, fu in realtà, almeno in parte suo allievo. Come Sainte-Beuve avrebbe tentato di strappare alla tempesta del tempo un passato già appannato e un fragile presente. Come lui avrebbe usato pettegolezzi e dettagli a prima vista insignificanti per resuscitare il mondo dal sonno della caducità. Non a caso Barrès lo definì «un poeta persiano smarrito in una portineria».
Il critico si definiva «un produttore di un genere relativamente facile». Non ostentava mai il suo lavoro e teneva sulla scrivania l’acqua di Colonia per lasciarne cadere qualche goccia se riceveva una visita. Ma la sua fisionomia aperta e sorridente era riservata all’esterno. Quando lavorava, si aggirava in vestaglia e papalina di seta nera nell’appartamento, riflettendo ad alta voce col viso aggrondato. In quei momenti nessuno poteva disturbarlo, nemmeno la governante che vegliava sulla casa. «È il giorno in cui devo fare l’articolo di lunedì prossimo. Non ho un minuto fino all’ultimo momento del parto. Anche la domenica è dedicata a ripulire il neonato e a correggere le bozze». Grazie a Nino Aragno, oggi tornano magnificamente curati da Vito Sorbello, i monumentali Lunedì.
L’adesione al Secondo Impero, maturata in un crescente pessimismo verso la politica, lo aveva fatto contestare dagli studenti al Collège de France. Anche se poi era stato nominato all’Ecole Normale, aveva sempre sentito quella protesta come un’ingiustizia. «Non ho mai, né poco né molto, fatto nei miei scritti il minimo elogio del regime, né di re, principi o principesse». Certo, aveva anche lui delle debolezze, ma non si era mai fatto coinvolgere in una losca manovra. «Un uomo seduto, che resta da parte, immobile, non può caderci».
Napoleone III l’aveva nominato senatore, ma l’indebolimento della sua salute aveva limitato i suoi interventi al senato. «Il ruolo che ha assunto e che fa di lui il difensore di ruolo del libero pensiero è stato meno il risultato di decisione meditata che di uno slancio irresistibile» scriveva in terza persona in un abbozzo biografico. La sua audacia in quei casi aveva stupito chi lo riteneva soltanto un abile opportunista.
Amava le cene al ristorante Magny, due volte al mese, in rue Contrescarpe, in cui una decina di scrittori – Flaubert, Renan, i Goncourt, Taine, Sand, Gautier e altri – si incontravano per una conversazione libera e vivificante. Negli ultimi anni però era troppo debole per uscire e quindi la sera pranzava con il suo personale.
A volte invece riceveva e allora, prima di fare gli inviti, sottoponeva i nomi dei candidati alla persona per cui era stata indetta la cena. In quelle serate si considerava solo «il padrone del locale» e restava in un angolo a sorvegliare il buon andamento della cena, con la stessa scrupolosa attenzione che dedicava ai suoi saggi. Solo quando vedeva che la conversazione era ben avviata tirava un sospiro di sollievo. Voltandosi indietro poteva ritenersi soddisfatto. «Votato al mestiere di critico, ho cercato di essere sempre di più un bravo e, se possibile, un abile operaio». Il peggioramento della salute non aveva rallentato il suo ritmo di lavoro. Aveva stupito e irritato chi lo credeva infeudato all’Impero passando a un giornale di opposizione, «Le Temps». «Bisogna tenersi troppo, quando si marcia sotto una bandiera... non ci si trova lì per discutere, ma per obbedire... Al «Temps» mi trovo come quando chiacchieravamo da Magny. Siamo sempre tra amici. Non si ha timore di esprimere ad alta voce quel che si pensa, anche se il vicino potrebbe non essere d’accordo».