Giampaolo Pansa, Libero 16/6/2013, 16 giugno 2013
DEL DILUVIO DI CIFRE SI PUÒ ANCHE MORIRE
Tanti anni fa ho conosciuto a Courmayeur, in valle d’Aosta, un signore che in seguito sarebbe diventato molto più celebre di quanto non lo fosse allora. Era Giuseppe De Rita, un sociologo di tre anni più anziano di me. Con la moglie e gli otto figli, durante l’estate abitava in un casa spartana, in mezzo a un bosco. Ascoltarlo nelle chiacchierate delle vacanze era un piacere. Aveva l’affabilità dei romani che non pretendono di saperla più lunga degli altri. E al tempo stesso rivelava un acume speciale nel leggere la realtà di un paese che, negli anni Sessanta, stava cambiando. Sotto gli occhi miopi di una politica restia a comprendere una rivoluzione pacifica in atto. Oggi c’è da sperare che il ceto politico e quello intellettuale apprezzino come merita il lavoro di De Rita.
Ha fondato il Censis, il Centro studi investimenti sociali, che pubblica ogni anno un Rapporto sull’Italia, prezioso perché legge le tendenze profonde della nostra società. “Beppe” ha diretto il Censis per molto tempo, adesso lo presiede accanto al direttore generale, Giuseppe Roma. E il suo Centro non smette di sorprenderci. Lo ha fatto ancora una settimana fa con un rapporto intitolato come un racconto horror: «Di troppi dati si può morire».
Dopo averlo letto, ho compreso perché provo un fastidio crescente nei confronti di molti telegiornali e anche di parecchia carta stampata. Ogni ora, e tutti i giorni, questi media ci sommergono con uno tsunami di cifre che dovrebbero spiegarci la realtà di un paese in crisi come l’Italia. Invece non ci spiegano nulla, anzi accrescono la confusione che ormai invade i nostri cervelli. E ottengono un solo risultato, molto negativo: alimentano la paura già annidata dentro di noi, creano sfiducia, provocano panico.
È chiaro che il Bestiario non è contro le statistiche e la diffusione dei dati. Ma l’ondata di numeri sta lievitando con un ritmo insopportabile. Il documento del Censis svela che nei primi cinque mesi del 2013 il solo Istat, l’Istituto centrale di statistica, ha pubblicato la bellezza di 95 diverse indagini, una media di quattro indagini a settimana. Parliamo di quelle dedicate al sistema economico e sociale. Gli accessi al sito Istat per scaricare i dati sono aumentati del 160 per cento negli ultimi sette anni.
Ma l’Istat non opera da solo nel produrre a getto continuo numeri sul ciclo economico. Un’infinità di soggetti li sfornano e li sparano attraverso i media. Ecco un elenco molto parziale dei numerifici: Fondo monetario internazionale, Ocse, la Banca centrale europea, l’Eurostat, la Banca d’Italia, il sistema delle Camere di commercio, le associazioni di rappresentanza e i sindacati.
Volete un esempio di numerificio? È la Cgia - Artigiani di Mestre. Il suo segretario, Giuseppe Bortolussi, anni 64, a forza di statistiche è diventato un personaggio dei telegiornali. Molti lo considerano un signore di destra, per le polemiche con Vincenzo Visco, ministro delle Finanze nei due governi Prodi. In realtà Bortolussi è stato per vent’anni nel Pci, a riprova che l’impegno nel Partitone rosso ti porta dovunque.
Al di là dell’infaticabile Bortolussi, il fenomeno più recente è il dilagare delle serie di dati messi a disposizione del pubblico dalle amministrazioni centrali e comunali. Oggi sono disponibili più di 4.800 data set di open data, detto in soldoni di cifre a disposizione di tutti. E che dovrebbero farci capire in quale direzione stiamo andando.
A rendere più caotico questo bordello di numeri, chiamato pudicamente “trend di iper-produzione di dati”, provvedono i sondaggi. Considerando solo quelli comunicati all’Agcom, in Italia vengono diffusi ogni anno più di quattrocento sondaggi, in media più di uno al giorno. Nelle prime ventidue settimane del 2013 i sondaggi pubblicati sono stati 174, con una media di otto alla settimana.
Ormai si sonda su tutto e il contrario di tutto.Si spazia dalle opinioni sul quadro politico, su quanto pensano gli italiani a proposito dell’arte in tempo di crisi, sul calciomercato, sulle aperture domenicali dei negozi. Scrive il Censis: «Vengono così prodotti numeri e tabelle sui fenomeni più diversi, in una corsa al ‘presentismo’, nel tentativo di documentare quello che accade. Ma si tratta di opinioni capaci di descrivere soltanto una parte della realtà, non di interpretarla nella sua complessità. In questo modo il contesto in cui viviamo diventa un paesaggio impersonale, che perde significato ».
Nella baraonda di numeri è facile immaginare che cosa accada nelle viscere del mondo di Internet, ossia nella foresta del web. Vediamo quel che avviene all’interno di una fonte primaria come l’Istituto centrale di statistica. Qui gli accessi al sito web dell’Istat sta crescendo a gran velocità. Nel 2005 i singoli visitatori erano un milione e 400 mila. Nel 2012 sono stati 3 milioni e 100 mila, con un aumento del 126 per cento. Le pagine scaricate sono passate dai 53 milioni del 2005 ai 61 milioni del 2012. Ma l’uso “intensivo” del web, iniziato negli ultimi sette-otto anni, ha prodotto un esito che pochi immaginavano.
Ai dati generati da fonti statistiche ufficiali, il Censis ricorda che si è aggiunta un’enorme quantità di dati immessi nella rete da singoli fruitori. Ne deriva un “gigantismo produttivo” impressionante. Nel 2007 i dati di ogni tipo immessi nella rete Internet ammontavano a 300 exabyte (un exabyte equivale a un miliardo di miliardi di byte). Oggi la rete contiene 1200 exabyte, l’equivalente di 1200 miliardi di copie di un film di due ore.
Ogni minuto su Google vengono effettuati due milioni di ricerche, pari ogni giorno a 24 mila exabyte. Migliaia di volte l’equivalente della più grande biblioteca del mondo, che è la Biblioteca del Congresso americano. Ogni minuto vengono inviati oltre centomila tweet e compiute oltre due milioni e duecentomila azioni su Facebook. Infine la quantità di dati immessi nella rete Internet raddoppia ogni diciotto mesi.
Il Censis ha fatto bene ad ammonirci che di troppi numeri si può morire. O per lo meno perdere la testa. E insieme perdere la fiducia che il mondo, a cominciare dalla nostra piccola Italia, non crollerà. Ma l’effetto annuncio di tutte queste cifre, senza spiegazione e prive di un’analisi corretta, è terribile. Lo constato in me stesso. Per dovere professionale, guardo molti telegiornali. Ma quando sento lo speaker avvisarci che verrà presentata una statistica, all’istante tocco ferro e cambio canale.
Mi sgomenta la corsa di molti media a prevedere catastrofi. In questa gara sono i talk show i più implacabili costruttori di scenari orribili. Viene in mente uno degli ultimi articoli scritti per il “Giorno” da Aldo Moro, poco prima di essere rapito dalle Brigate rosse. Il titolo recitava: «Il bene non fa notizia». Ma adesso stiamo sprofondando nel catastrofismo senza requie.
Un commerciante bolognese, intervistato da un telegiornale, ci ha messo in guardia contro questa deriva: «A parte il problema dell’Imu e dell’Iva, il dramma vero è un altro: la mancanza di fiducia, la convinzione dilagante che tutto sia destinato a crollare». Sono d’accordo con lui. E mi rammento la lezione di mio padre Ernesto, operaio delle Poste e telegrafi. Diceva: «Se perdessi il lavoro, sarei pronto a inventarmene uno qualsiasi, pur di campare».
Gli domandavo: «Fammi un esempio ». E lui, cresciuto nella miseria di sei bambini orfani, rispondeva con un sorriso: «Andrei anche a raccogliere gli escrementi dei cavalli per venderli alle signore che devono concimare i gerani del loro balcone».
Ai giovani dovremmo insegnare che debbono diventare imprenditori di se stessi. Ma come possono riuscirci se i genitori se ne stanno seduti ad aspettare la fine del mondo?