Giampaolo Visetti, Affari & Finanza, la Repubblica 17/6/2013, 17 giugno 2013
FAR EAST LA CINA NON TEME LA SINDROME DI ISTANBUL
La Cina è scossa da un’ondata di scioperi e proteste. L’emergenza del 2009 non è stata superata e gli analisti avvertono che per il Dragone i guai sono solo all’inizio. Il rallentamento della crescita, la lentezza della ripresa in Occidente e l’aumento dei salari minacciano il sistema Cina e il governo teme che la crisi si trasformi in instabilità sociale. Migliaia di aziende chiudono, oppure si trasferiscono lontano dai distretti produttivi storici, troppo costosi. Un esercito di operai rifiuta di cronicizzare il proprio nomadismo occupazionale e chiede che i trasferimenti vengano compensati con stipendi più alti. E’ un insieme di problemi esplosivo: nei primi quattro mesi del 2013 solo nel Guangdong si sono registrati oltre 200 scioperi, il doppio rispetto a un anno fa. Il rafforzamento dello yuan sul dollaro aggiunge debolezza al «made in China» e le imprese delocalizzano in Paesi più competitivi del Sudest asiatico. Un sondaggio tra 4 mila aziende conferma che l’occupazione nel secondo trimestre dell’anno calerà di un altro 12%, dopo il 18% dei primi tre mesi, il livello più basso dal 2009. Tra gennaio e marzo il Pil cinese è cresciuto del 7,7%, contro il 7,9% dell’ultimo quadrimestre 2012. La crescita cinese in due anni ha perso poco meno di tre punti di Pil e le stime annuali risultano ulteriormente tagliate. In maggio le esportazioni sono scese di un altro 1% e le industrie segnano un indebitamento record. Scioperi e proteste
aggravano dunque un quadro già complesso: il salario medio mensile dei lavoratori migranti, in dodici mesi, è arrivato a circa 340 euro, con un incremento dell’11,8%. Gli aumenti non certificano però il riavvio della domanda: i lavoratori strappano paghe migliori a causa dell’invecchiamento della popolazione, per la difficoltà di trovare personale specializzato e grazie ad una maggiore conoscenza delle retribuzioni all’estero, diffusa dal web. Gli analisti prevedono che l’incrocio tra rallentamento della crescita e aumento dei costi produttivi porterà presto ad un’esplosione delle vertenze in Cina. Il presidente Xi Jinping, nel primo vertice con Barack Obama, ha confidato di non temere la frenata economica, considerata condizione per la sostenibilità della crescita. Il boom delle proteste che minacciano la stabilità del potere sta però già innescando un ripensamento a Pechino. Il problema cruciale non è il futuro del settore manifatturiero, ma la difficoltà di progredire nell’innovazione. La Cina ha superato gli Usa nel numero annuale dei brevetti: oltre 526 mila, contro 503 mila. Solo il 25% di questi esprimono però invenzioni reali, rispetto al 90% americano, mentre tutto il resto si limita a lievi ritocchi nel design. La difficoltà ad innovare e a indurre passi avanti nell’hi-tech esclude le imprese cinesi dalla corsa verso il futuro e si traduce nella crisi che investe oggi il lavoro. La Cina non frena perché esporta meno prodotti low cost. Lo fa perché non offre innovazione: per questo la nuova leadership è scossa dai nuovi scioperi dei vecchi operai.