Enrico Franceschini, Affari & Finanza, la Repubblica 17/6/2013, 17 giugno 2013
LA FAVOLA DI ANGELA DA UN SOTTOSCALA NELL’INDIANA A REGINA DELLA CITY
Londra L’ anno scorso la City aveva un re: il banchiere Bob Diamond, soprannominato “il volto inaccettabile del capitalismo”, simbolo di speculazioni rampanti e bonus eccessivi. Era l’uomo più ricco della cittadella della finanza londinese, portando a casa un pacchetto (salario, premi, azioni) di quasi 21 milioni di sterline. Ma era moralmente così controverso che alla fine la Barclays, la banca di cui dirigeva il settore investimenti, travolta da scandali e accuse di truffa, lo ha lasciato andare o meglio lo ha cacciato, all’insegna del motto, strombazzato dai soliti tabloid, “Diamond is not forever”, gioco di parole sul noto detto, “i diamanti sono per sempre”. Quest’anno, al suo posto, sul trono della City è salita una regina: Angela Ahrendts, ammini-stratore delegato della Burberry, diventata con 16,9 milioni di sterline (circa 20 milioni di euro) il manager meglio pagato nello Square Mile, il cosiddetto “miglio quadrato” (sottinteso: più ricco della terra, sebbene ormai si estenda ben oltre tali dimensioni). E’ la prima volta che una donna arriva al primo posto nella classifica di questi mega-dirigenti, i “ceo”, chief executive officers, delle Ftse 100, le cento maggiori aziende quotate nell’indice della Borsa di Londra. Un’ascesa considerata per molti versi una svolta: le donne, da sempre pagate peggio degli uomini, anche a parità di incarichi, ora dimostrano con lei di poterli superare. E di fare meglio di loro, nella
stanza dei bottoni, non solo sotto il profilo del rendimento, valutato anche dallo stipendio che ricevono, ma pure della morale, del modo in cui conseguono il proprio successo. Anche la Ahrendts potrebbe avere un soprannome, infatti, ma sarebbe l’opposto di quello di Diamond: bisognerebbe chiamarla “il volto accettabile del capitalismo”. Perfino troppo accettabile, ironizzano i maliziosi, perché la sua sembra una storia da fiaba, tanto è perfetta, completa di immancabile lieto fine. La storia di una self-made-woman, che parte da una provincia americana distante dal glamour di Londra come la terra dalla luna, sposa il suo fidanzatino delle scuole elementari, realizza una carriera stellare senza rinunciare alla famiglia, facendo tre figli, ed è una fervente cristiana che legge la Bibbia tutti i giorni, per cui potrebbe apparire una donna all’antica; ma è pure l’artefice di una campagna di modernizzazione che ha trasformato completamente la compagnia da lei guidata, dandole un’evidente impronta sexy che prima le mancava senza per questo rinunciare al fascino classico del suo brand. E nel privato può definirsi un bastione del femminismo, essendo il bread-winner di casa, colui anzi colei che contribuisce maggiormente al bilancio familiare, al punto che il marito ha fatto quello che tanto spesso fanno le mogli, ha lasciato la propria attività negli Usa quando è venuto il momento di seguire Angela sul suo nuovo trampolino londinese. Se a ciò si aggiunge che secondo alcuni ha lei stessa un look da fotomodella, o perlomeno da ex-fotomodella, la conclusione potrebbe essere che Angela Ahrendts è non solo “accettabile” ma perfetta, l’antitesi del personaggio interpretato da Meryl Streep in “Il diavolo veste Prada”, film-icona (negativa però) del mondo della moda. Una pellicola analoga, nel suo caso, si intitolerebbe “l’Angela veste Burberry”. L’Angela in questione nasce nel 1953 a New Palestine, Nuova Palestina, che non è un insediamento nel deserto del Medio Oriente, come potrebbe lasciar credere il nome, bensì una cittadina di appena 2 mila abitanti nell’Indiana, lo stato americano del granoturco e dell’agricoltura. La sua è una modesta famiglia, i genitori e sei figli stretti in una casetta di quattro stanze. Sua sorella più grande, Carrie, racconta un aneddoto: “Non c’era alcuna privacy, così, quando aveva dieci anni, Angela ricavò per sé un piccolo spazio nel sottoscala, dentro un armadio a muro in cui si riponevano una volta i cappotti. Ci mise delle luci soffuse e degli scaffali su cui poneva delle candele fatte da lei. Era famoso, nel nostro quartiere, tutti venivano a vedere il posticino segreto di Angela”. Un pubblicitario l’avrebbe definito l’allestimento di una vetrina: quasi una premonizione. L’armadio del sottoscala è vuoto di vestiti perché non ci sono soldi per comprarne: i suoi, Angela, se li cuce da sola. La stessa determinazione e attenzione per i dettagli le permette di distinguersi a scuola e finire all’università, già un traguardo rispetto al luogo da cui è partita, anche se non si tratta di un costoso college privato della Ivy League ma soltanto di una piccola università statale, la Ball State, dove - e a questo punto è una scelta, non più una predestinazione - si laurea in merchandising e marketing. Comincia così a lavorare nel settore della moda, il mondo che l’attira fin da bambina. Ma di glamour, all’inizio, ne vede poco. Il suo primo impiego è alla Warnaco, un’azienda di reggiseni; poi passa alla Liz Claiborne, abbigliamento per la donna della classe media. Ce la mette tutta, lavora 80 ore alla settimana ovvero 16 al giorno, fa rapidamente carriera. Quando nel 2006 viene chiamata a Londra a dirigere l’impero Burberry, tuttavia, a qualcuno la sua nomina pare una scommessa rischiosa: ce la farà quella provinciale americana a guidare una delle più antiche e rinomate marche dello stile inglese, fondata nel 1856 in quella Regent’s Street che ospita ancora il suo negozio principale, famosa per gli impermeabili trench e per quel tessuto a tartan che la fa riconoscere ovunque? Ebbene, non solo la Ahrendts ce la fa, ma risveglia e resuscita un impero in declino. Nei primi anni Duemila, proprio il disegno a tartan che è il marchio di fabbrica della Burberry è stato “chavenizzato”, un termine che viene da “chav”, slang che significa burino, cafone, buzzurro: le Wags, le wives and girlfriends ossia le mogli e le ragazze dei calciatori della Premier League, piene di soldi ma non altrettanto di buon gusto, si coprono di prodotti Burberry, che siano vestiti o borsette; e le burine della periferia londinese le copiano acquistando imitazioni da quattro soldi provenienti dalla Cina. Angela cambia tutto: impone nuove linee, presenta modelli in cui del tartan non c’è più l’ombra, snellisce e ringiovanisce l’immagine dell’azienda, entra in territori nuovi, con materiali e colori audaci, sebbene riuscendo a conservare il sapore del “made in Britain”, di quella Old England che sembra inimitabile. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il valore di mercato delle azioni Burberry è triplicato nei sei anni della sua era, nel 2012 il fatturato è stato di 1,2 miliardi di sterline con 180 milioni di profitti, in Cina la crescita è del 20 per cento l’anno, i negozi di proprietà o in franchising sono in espansione e diventano templi trendy. Come ha fatto? Lavorando sodo, bevendo Diet Coke, il carburante che la tiene in piedi, seguendo un fiuto che dalla lontanissima New Palestine l’ha condotta fino a Piccadilly Circus. Poi nel week-end riposa nella sua villa georgiana a ovest di Londra, con il marito Gregg, il fidanzatino della prima elementare, e i loro tre figli, di 17, 16 e 12 anni, due cani, il campo da tennis, la piscina, il bosco. E’ una delle tre sole donne amministratrici delegate del Ftse 100, ma è contraria alle quote femminili: “I posti si conquistano, non si impongono per legge”, dice. E i quasi 17 milioni di sterline di compenso non la imbarazzano, anche perché ne dona il 10 per cento, 1 milione e 700 mila, circa due milioni di euro, in beneficenza. Tanto per dare alla sua fiaba un’ultima pennellata rosa, anzi tartan.